TRIESTE In poche altre città come a Trieste gli scrittori sentono l’esigenza di ancorare le loro storie e poesie ai luoghi fisici e a un paesaggio che viene assorbito osmoticamente dagli abitanti: come lo “spazio di mezzo” in cui si colloca la città, sospesa tra Carso e mare, anche l’anima di Trieste è inafferrabile, continuamente oscillante tra l’estroversione e l’introversione, tra cultura nordica e mondo mediterraneo.
L’attenzione ai luoghi, nei quali si proiettano i fantasmi dell’autobiografia con le sue irriducibili ambivalenze, sembra una reazione a questa inafferrabilità, un modo per definire un’identità incerta e precaria come tutte le identità di frontiera ma anche smaniosa di dilatarsi verso orizzonti smisurati che la portino altrove: si intrecciano una tensione al radicamento e un bisogno di fuga che, a partire da Slataper, percorrono tutta la letteratura triestina. A volte, come nel primo Svevo o in Renzo Rosso, il rapporto con i luoghi si trasforma in un vero e proprio corpo a corpo: la città diventa un personaggio intransitivo, ostile, che restituisce un ritratto anche spietato di chi si cerca in essa, dei suoi limiti e delle mancanze esistenziali.
All’esigenza di una letteratura fondata sulle “cose” si accompagna sempre la tendenza a trasfigurarle e a prendere il largo: Mercurio e Apollo sono le due facce della stessa medaglia. Mappare Trieste significa adottare una prospettiva mobile e fluida come il ritmo del pensiero, dove tutto coesiste simultaneamente, abbandonarsi alle sorprese, prendere atto di una complessità e molteplicità spaziale e temporale che eludono i tentativi di classificazione e ogni stabilità.
Al di là delle mitizzazioni, che derivano dall’ansia di trovare un ordine armonioso in ciò che è sfuggente e caotico e di salvare l’individualità da tutto ciò che la minaccia o la nega, la vera essenza di Trieste, come aveva già capito Slataper, è nel conflitto: è un destino determinato non solo dalla posizione geografica e dalla varietà etnica, ma dalla natura stessa del paesaggio, dove si incontrano e si scontrano gli elementi primordiali, compreso il fuoco, forza polisemica e immateriale, che si esprime nell’inquieto vitalismo dei triestini e tende a quell’unità degli opposti e della materia, a cui anche gli scrittori vogliono approdare. La letteratura diventa così una pratica alchemica, si confronta con il buio della materia, sperimenta la sofferenza della ricomposizione e della trasfigurazione, prefigura l’altrove.
Questo altrove somiglia alla fonte Castalia evocata nell’ultima raccolta poetica di Chiara Galassi (Besa, 2014) e, nello stesso tempo, alla comunità “arcobalenica”, ibrida e composita, di cui parla Riccardo Redivo nel recente Mismas (Sensibili alle foglie, 2020), dove vengono esaltate le differenze individuali e il non appartenere a nulla e nessuno, la marginalità, sono una forma di salvezza: in entrambi i casi, si tratta di un altrove che, paradossalmente, esiste solo per sottrazione e non è rintracciabile in nessun luogo preciso né potrà mai risolversi in una completa identificazione, perché la sua identità più autentica è l’estraneità, la diversità.
Per capire la “città degli elementi”, incandescente come la vita e terreno di scontro delle sue opposte tensioni, è necessario quindi prenderne le distanze, bruciare, elevarsi, come fa Saba salendo verso Montebello e ritirandosi nel suo “cantuccio”; bisogna partire dai luoghi per raggiungere, attraverso un processo quasi esoterico, quella dimensione extraterritoriale e immateriale che è anche il cuore della materia. —