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«Un mese solo di dolore e morte. Mi hanno chiamato il miracolato»

Il calvario a causa del Covid-19 di Bruno Razza, 70 anni, già sindaco di San Lorenzo Isontino dimesso a San Silvestro ma dopo un dicembre passato fra gli ospedali di Gorizia e di Udine

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Bruno Razza, 70 anni, durante il ricovero in terapia intensiva all’ospedale di Udine 

San Lorenzo «A Gorizia pensavano che non avrei superato la notte. A Udine, dove mi hanno poi trasferito, mi hanno definito “il miracolato”: per diversi giorni sono stato in mezzo alle persone che morivano e a quei pochi fortunati come me che speravano di farcela». È da brividi il racconto dell’ex sindaco di San Lorenzo Bruno Razza sull’esperienza che, per sua stessa definizione, «mi ha cambiato la vita». Il 2021 è stato per lui una liberazione: per settimane, infatti, è stato in bilico tra la vita e la morte a causa del Covid, contagiato da una forma aggressiva del virus che lo ha costretto a un mese intero di ricovero in ospedale. Un incubo durato esattamente tutto il mese di dicembre, iniziato l’1 e concluso con la dimissioni proprio il giorno di San Silvestro.

«La mia con il Covid – racconta Razza, attuale consigliere comunale di opposizione a San Lorenzo, che ha compiuto 70 anni proprio durante la degenza ospedaliera – è stata una tremenda esperienza: non è stata una semplice tosse, un po’ di febbre o una normale quarantena a casa. Sono stato super fortunato a salvarmi e devo ringraziare per questo tutti gli operatori sanitari che mi hanno tenuto in vita con la loro professionalità». Razza, che ora sta lentamente recuperando a casa dopo aver superato il periodo più duro, fa una cronistoria che ghiaccia letteralmente il sangue. «Sono stato portato in ambulanza a Gorizia il primo giorno di dicembre, perché mia moglie ha visto che non stavo bene. L’ambulanza è arrivata subito portandomi di corsa al pronto soccorso dove hanno diagnosticato il contagio e visto come il virus mi aveva aggredito in maniera gravissima. Sono rimasto allibito quando un’anestesista è venuta a chiedermi l’autorizzazione per intubarmi: spaventato, ho accettato subito». Di ciò che è successo dopo, per quasi 10 giorni, Razza non ricorda nulla. «Ho avuto febbre molto alta e difficoltà di ogni tipo – racconta –. Ho saputo a posteriori che il pronto soccorso di Gorizia, immaginando che non avrei superato la notte, aveva chiesto un posto letto all’unità Covid terapia intensiva di Udine e meno male che l’hanno trovato subito. Mi hanno immediatamente trasferito e là mi hanno sedato, con i tubi dell’ossigeno nel collo, chiuso nella macchina respiratoria, mi hanno fatto dormire per nove giorni a pancia in giù, mantenendomi in vita come un vegetale».

Intorno a lui, un vero e proprio girone dantesco: «Al risveglio, sono rimasto senza sapere e capire nulla per un’altra decina di giorni, in mezzo alle persone che morivano, a quelle che aspettavano solo di morire e a quei pochi fortunati come me che speravano di farcela». Ed è qui che Razza vuole spendere alcune parole per chi l’ha salvato: «I medici, compresi i neolaureati appena assunti, e gli infermieri sono stati fenomenali: mi hanno definito “il miracolato”, consapevoli del pericolo che ero riuscito a superare». Nel frattempo, l’intubazione gli proibiva di parlare: «Sono stato muto, fermo nel letto, fino al 23 dicembre, quando mi hanno staccato tutti i tubi e chiuso le aperture della trachea. Per la prima volta sono riuscito a spiaccicare qualche parola con la mia voce e mi sono ancora una volta emozionato. Il primario mi ha tolto definitivamente la tracheotomia, ridandomi l’uso della parola. Da quel momento non ho avuto più problemi di febbre, di colesterolo, di pressione, di diabete e di null’altro. Mi hanno trasferito di stanza per quattro volte, spostandomi sempre più vicino a coloro che stavano migliorando, senza dimettermi, ma controllandomi continuamente».

L’uscita dal tunnel era ormai vicina, ma Razza ha iniziato lì a comprendere come la seconda parte del percorso sarebbe stata comunque dura: «Il 28 mi hanno detto di provare ad alzarmi. Imprigionato nel letto da tanto tempo, con la vestaglia ospedaliera e scalzo, credevo di volare, ed invece sono rimasto sconvolto quando ho capito che il Covid mi impediva anche di stare in piedi. In quei giorni ho ricominciato a parlare con mia moglie e mia figlia al telefono e così la lunga degenza mi è sembrata più corta, anche grazie alle centinaia di messaggi dei miei amici e familiari». Il giorno 29, per agevolare il recupero motorio, il trasferimento in pneumologia: «Lì sono rimasto fino alla dimissione dell’ultimo giorno dell’anno. Quando ho rivisto mia moglie, non sono riuscito a trattenere il pianto». È proprio grazie alla signora Tiziana che pian piano Razza sta ricominciando questa sua nuova vita dopo il Covid: «Grazie al preziosissimo aiuto di mia moglie sto cercando di recuperare: sono come un bambino adulto che deve imparare nuovamente a muoversi. Cammino con il deambulatore, non riesco ad alzarmi con facilità e sto attento un po’ a tutto. Mi dicono che per riprendere forze e naturalezza ci vorranno almeno due mesi. Ma in questo dramma, è emersa la grande professionalità degli operatori sanitari: il personale del pronto soccorso di Gorizia e quello in terapia intensiva e semintensiva a Udine, grazie a loro sono ancora qui e posso raccontare la mia storia». —


 

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