«Quel fischio infernale del casco dell’ossigeno simile al reattore di un jet»
Il racconto del giornalista triestino Gorani ricoverato al Policlinico di Milano. «Da inviato di guerra ho visto ogni tipo di orrore e corso rischi. Ma non ho mai provato tanta paura come in reparto»

TRIESTE «Il rumore infernale del casco che mi salvava la vita. Il personale che non si fermava mai. La paura di non farcela. Qualcuno dovrebbe farsi in giro nei reparti Covid per capire veramente quello che sta succedono». Fulvio Gorani è un giornalista triestino di 68 anni, a lungo inviato speciale della Rai negli scenari di guerra. Per mestiere insomma di rischi ne ha affrontati, ma mai avrebbe pensato che il pericolo più grande lo avrebbe corso una volta andato in pensione, per “colpa” di una cena tra amici a Milano, dove vive da tempo. «Per trent’anni ho documentato tutti i conflitti del pianeta: ho visto centinaia di cadaveri e assistito interminabili movimenti di profughi. Mi hanno sparato e bombardato e ho visto la morte più volte. Mai però a questo livello».
Il suo racconto parte dallo scorso 11 ottobre. «Quel giorno insieme a mia moglie siamo andati a cena con degli amici in un locale dove però abbiamo rispettato il distanziamento. Del resto da febbraio siamo stati sempre molto attenti. Una settimana dopo quella serata mia moglie ha iniziato a stare male. Abbiamo fatto il tampone: lei positivi e io negativo. Due giorni dopo però mi viene la febbre, divento positivo e sto malissimo. Non riesco ad alzarmi dal letto nonostante le medicine. Alla fine vengo ricoverato in ospedale, al Policlinico di Milano, dove dai parametri emerge una saturazione di ossigeno nel sangue troppo bassa, quasi ridicola. Ho la polmonite».
Lì inizia la fase più difficile sia a livello fisico sia mentale. «Mi mettono un casco in testa e mi inondano di ossigeno. Resto al Pronto soccorso: un enorme stanzone dipinto di verde, pieno di malati tutti casco muniti, in un frastuono di luci e rumori senza mangiare e con un po’ di acqua che riesco a succhiare con una minuscola cannuccia attraverso una valvola del casco. Soffro di claustrofobia e ho paura. Tanta paura. Il casco non ti permette di vedere al di là della plastica e non ti fa sentire i rumori esterni, ma solo un terribile fischio simile al rumore di un reattore di aereo. Anche la notte non spengono mai la luce, c’è troppo da fare, troppi malati e troppa sofferenza. Infermieri che vanno avanti e indietro senza sosta tutti bardati come degli omini Michelin. Poche parole, solo qualche malato che urla, uomini e donne, giovani e anziani, tutti assieme in una specie di sabba infernale».
Dal Pronto soccorso al reparto. «Come andare in un hotel a cinque stelle. Vicino a me un altro paziente, una persona meravigliosa che riesce a stare per dieci ore a pancia in giù senza alcun lamento. Lui è asmatico e quindi corre rischi più alti e alla fine devono intubarlo per la rottura di un polmone. Ancora oggi è in terapia intensiva. Quando lo hanno portato via ho pianto assistendo alla vestizione e anche lui perché voleva chiamare i suoi due bambini ma non ci riusciva».
Non mancano altre immagini terribili. «Davanti alla porta della stanza un giorno appare una bara di quelle grigie, zincate. Qualcuno non ce l’ha fatta. Vorrei strapparmi tutti i tubi - racconta Gorani -, togliermi questo maledetto casco e scappare». Quattro giorni che paiono mesi con in testa il casco che fa il rumore di un jet. «Il tempo passa e io sono sempre più impaurito e stanco. Vedo il personale medico e infermieristico muoversi con tutte le protezioni, lavorare senza sosta. Parlo con una dottoressa, assomiglia ad un angelo anche se non la posso vedere perché coperta dalle testa ai piedi con un involucro di plastica azzurra, cuffia in testa, due mascherine, occhiali di plastica bianca trasparente e visiera. La voce, però, è tanto dolce e rassicurante. Mi spiega tutto con dolcezza e umanità. Le chiedo cose assurde, vorrei sapere quando e se tutto questo finirà ma lei non ha la sfera di cristallo, può solo dirmi che ce la farò. Con calma ma andrà bene. La polmonite è una brutta bestia, la mia non è gravissima ma c’è e bisogna insistere con l’ossigeno, il cortisone e l’antibiotico».
Cure che, fortunatamente. «Dopo quattro giorni mi tolgono il casco e passo per altri tre giorni a dei tubi più piccoli e alla fine a tubicini ancora più piccoli. Dopo sette giorni esco dall’ospedale».
Ora Gorani è in quarantena, stanco morto ma più tranquillo. Anche se dimenticare quell’incubo è impossibile. «Qualcuno - conclude -dovrebbe farsi un giro e vedere quello che succede negli ospedali, dove tutti combattono per poter sopravvivere. Serve responsabilità».
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