Un ingegnere triestino “dietro alle quinte” del Nobel per la Pace
Battistin è nello staff del World Food Programme premiato dall’Accademia reale. L’ultimo impegno in Bangladesh

TRIESTE C’è anche un po’ di Friuli Venezia Giulia nel “dietro le quinte” del World Food Programme, quest’anno vincitore del premio Nobel per la Pace, grazie alla sua lotta contro la fame che a livello globale oggi affligge oltre 690 milioni di persone. Goriziano di nascita e triestino d’adozione, 39 anni, Paolo Battistin fa parte del dipartimento di Ingegneria che ha sede nel quartier generale Wfp a Roma. La sua squadra è in prima linea quando nel mondo si verificano emergenze umanitarie o catastrofi come ad esempio terremoti o alluvioni, intervenendo sul posto nelle 24 ore successive al cataclisma per offrire immediato supporto alimentare e di ricostruzione.
Più in generale si occupa di edificare infrastrutture sia a servizio dell’organizzazione, come basi logistiche per lo stoccaggio di cibo, sia al servizio delle popolazioni come campi per rifugiati, strade, ponti, canali d’irrigazione, opere di drenaggio, cucine scolastiche e così via, ma anche per i dipendenti della stessa agenzia delle Nazioni Unite, impegnati in missioni in diverse parti del pianeta.
La carriera di Paolo nel Wfp è iniziata nel 2010, quasi per caso: «Mi ero trasferito a Roma proprio per cercare lavoro, dopo essermi laureato alla triennale a Udine, come ingegnere civile, e poi alla specialistica in Ingegneria edile a Trieste. Nel 2010 sono stato uno dei primi tre ingegneri assunti nel Programma, per lavorare alla costruzione di infrastrutture all’estero, e tuttora sono l’unico ingegnere italiano del mio team: nella capitale siamo in 15 e gestiamo circa altri 80 colleghi che si trovano in giro per il mondo».
Negli ultimi dieci anni ha viaggiato in Asia e in Paesi dell’Africa tra cui Ciad, Etiopia, Sierra Leone, aiutando le popolazioni a sviluppare infrastrutture per la sicurezza alimentare oppure appunto a fronteggiare calamità naturali. «Poniamo il caso di un piccolo villaggio, disperso chissà dove, impossibile da raggiungere. In certi casi, noi interveniamo costruendo collegamenti come strade e ponti per garantirgli accesso ai mercati. Cerchiamo sempre di utilizzare i materiali reperibili sul posto, facendo anche innovazione e garantendo sostenibilità», prosegue: «Nel 2015 siamo stati in Nepal per il terremoto. Il giorno dopo il sisma ero già in aereo, ero l’unico ingegnere del programma con due colleghi ad affiancarmi. Abbiamo gestito il supporto ingegneristico alle operazioni umanitarie. Quasi tutti i palazzi erano distrutti. Non dormivamo mai. Provai tutte le possibili emozioni, stress, gioia, paura: entravamo negli edifici per fare verifiche e quando arrivavano le scosse fuggivamo all’esterno». Uno dei progetti più recenti riguarda Cox’s Bazar, il più grande campo rifugiati al mondo, in Bangladesh: una città a cielo aperto di 800 mila abitanti. Durante la stagione dei monsoni qui c’è un alto rischio di perdita di vite umane: gli ingegneri del Wfp assieme all’Unhcr stanno lavorando alla messa in sicurezza della baraccopoli dal punto di vista infrastrutturale. —
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