Mostar città senza elezioni condannata da Strasburgo
Stefano Giantin
BELGRADO Una vittoria per i diritti civili e la democrazia. Una sconfitta – l’ennesima – per un Paese che non sembra in grado, neppure a livello locale, di darsi da solo un colpo di reni per riformarsi. Sono queste le due facce della medaglia di una importantissima sentenza emessa ieri, martedì 29 ottobre, dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (Cedu). Sul banco degli imputati, la Bosnia-Erzegovina, portata davanti alla Corte da Irma Baralija, sociologa, attivista politica e alto papavero del partito Nova Stranka.
Oggetto della tenzone, la situazione a Mostar, città che detiene un record negativo probabilmente a livello mondiale: quello di non aver potuto organizzare elezioni amministrative dal lontanissimo 2008, a causa delle solite beghe interetniche. Il perché dello stallo? Lo ha spiegato la stessa Corte di Strasburgo, ricordando che nel 2010 «la Consulta» del Paese balcanico dichiarò «incostituzionale alcune regole della legge elettorale» del 2001 «per l’elezione dei consiglieri comunali», perché impedivano la corretta rappresentanza del frammentato elettorato di Mostar, città divisa in due tra croati e bosgnacchi musulmani. Consulta che diede alle autorità competenti «sei mesi» per risolvere il problema. Di mesi, invece, ne sono passati decine e decine e nulla è cambiato, a causa dei rapporti conflittuali tra i due maggiori partiti della città dello storico ponte, i croato-bosniaci dell’Hdz e i bosgnacchi dell’Sda, impegnati in una guerra per non cedere terreno all’altro. L’Hdz spingeva a favore del principio di «una persona un voto», per sfruttare il fatto che i croati sono maggioranza in città, posizione fortemente rigettata dall’Sda. Il risultato, senza regole elettorali aggiornate Mostar non è più andata alle urne per eleggere i suoi amministratori locali da più di un decennio ed è rimasta senza consiglio comunale, retta da un sindaco “tecnico”, il tutto fra le petizioni e le critiche – inascoltate - della comunità internazionale.
Situazione che è apparsa da subito intollerabile alla pasionaria Irma Baralija, che ha fatto causa alla Bosnia per il mancato rispetto della sentenza della Corte suprema, che le ha «negato il diritto al voto o a candidarsi alle elezioni locali», una vera e propria «discriminazione», aveva sostenuto Baralija. E aveva ragione, hanno deciso ieri all’unanimità i giudici della Cedu, stigmatizzando le giustificazioni addotte dalla Bosnia, che aveva parlato di «difficoltà» nel raggiungere a Mostar un compromesso tra partiti sulla condivisione del potere. Giudici che hanno ordinato alla Bosnia – oltre a un risarcimento di 5 mila euro alla ricorrente – di agire per emendare le regole elettorali a Mostar «entro sei mesi». La sentenza è già di per sé una vittoria che segna «il ritorno della democrazia» in città, ha esultato così Baralija. Ma cautela si impone, la Bosnia infatti in passato non è spesso riuscita a rispettare simili pronunciamenti. Il più celebre, il “Sejdic-Finci”, del 2009. —
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