Il tango secondo Borges, ballo spavaldo e vitale della nostra felicità perduta
Adelphi pubblica le conferenze dello scrittore argentino che ci portano a fine ’800 nel barrio Sur di Buenos Aires

TRIESTE È il 2002 quando dall’Argentina arrivano nelle mani di uno scrittore basco alcune registrazioni risalenti a quasi mezzo secolo prima. Non c’è dubbio, la voce è quella del grande maestro della letteratura latinoamericana Jorge Luis Borges, l’occasione risale all’autunno del 1965 quando, al pianterreno dell’appartamento 1 in calle General Hornos, a Buenos Aires, lo scrittore tenne un ciclo di conferenze sul tango. Quattordici anni dopo, in occasione dell’uscita del disco “El Tango” di Piazzolla, nel quale per la prima volta vengono musicati testi di Borges, esce in lingua spagnola la trascrizione di queste lezioni. E oggi arriva anche in Italia “Il tango” le quattro conferenze dell’autore argentino pubblicate da Adelphi (170 pagg. 14 euro).
Se ci aspettiamo di trovare in queste pagine una storia filologica del tango o le atmosfere dolenti e malinconiche che abbiamo conosciuto nelle nostre sale da ballo, rimarremo delusi. La visione di Borges è parziale, riduttiva, piena di fascino. Non ci racconta cos’è il tango da film francese e nemmeno il languore di certi canti infelici. No, Borges ci parla della preistoria del tango, che significa prima di tutto parlare di Buenos Aires attorno al 1880, un’epoca che non conobbe ma che immaginò e trasformò in quel mito fondativo della sua letteratura. La Buenos Aires che sentiamo vivere nelle sue parole è quella clandestina del barrio Sur, delle case basse con il patio, i lampioni a gas, i facchini all’angolo delle strade, i tram a cavalli e i terreni incolti, la vita di periferia.
La Buenos Aires delle “casas malas”, i postriboli dove si andava a giocare a carte, bere un bicchiere, incontrare gli amici – e ballare il tango, spesso tra uomini perché le donne del popolo ne conoscevano la radice indecente e si rifiutavano di ballarlo. E quei luoghi, idealizzati e alterati, hanno i loro protagonisti negli attori del primo tango, così vicino alla milonga. Sono i “compatridos”, identificati con i poveri che non potevano permettersi una casa nelle vicinanze di plaza Mayor, ma soprattutto incarnazione di un modello maschile coraggioso e spavaldo: il bravaccio che gioca ai dadi e si sfida al coltello nei vicoli sterrati. E accanto a loro ci sono i “niños bien”, giovani sfaccendati riuniti in bande rissose e turbolente, teppistelli dai pugni facili che portano il ballo argentino a Parigi. E le ragazze di vita naturalmente. Borges non ha mezze misure, per lui il tango cantato, il “pensiero triste che si balla”, non è altro che “un lamento tristanzuolo” che poco ha a che vedere con la sfacciataggine, la spudoratezza, la pura felicità e il coraggio dei primi tanghi dei sobborghi. Uno scontro tra mito e realtà, lo potremmo definire. Tra la Buenos Aires ostinatamente e poeticamente immaginata e quella reale.
Tra l’arditezza vitale che richiama la mitologia del gaucho e invece il sentimentalismo effeminato, il lamento rancoroso per l’ingrata sorte, tipico della versione più diffusa. Leggere queste conferenze ci fa conoscere un tango poco noto e, proprio perché non usurato dagli stereotipi, più vivido e interessante. Ma quella di Borges non è una difesa di un mondo arcaico ormai scomparso. Filtra, tra le sue digressioni aneddotiche, una consapevolezza profonda che alla fine lo porta a chiedersi: se il tango è veramente, originariamente, l’allegria e la spavalderia dei ragazzacci e dei bordelli, dov’è finita oggi quella felicità? E quel coraggio, la capacità di mettere alla prova il proprio valore sfidando gli sconosciuti, dov’è tutto questo nel nostro tempo? E allora la forza e la suggestione del tango è forse nel suo far vivere quei morti dentro il ballo, nel consegnare a tutti noi che lo balliamo oggi l’illusione di un passato immaginario: “ascoltando il tango sentiamo, in un modo magico, che anche noi siamo morti in duello, in un angolo di periferia”. —
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