Gli ambientalisti lanciano l’allarme: il carbone balcanico inquina anche l’Ue
Il report: 16 le centrali obsolete le cui emissioni si estendono in vari Paesi con impatti su salute e spese sanitarie nazionali
Stefano Giantin
BELGRADO Case e trasporti ecosostenibili, divieti ai diesel, focus su eolico e solare. Gli Stati della Ue da anni investono per ridurre emissioni e smog. Ma quello “salutista” europeo potrebbe essere, se non del tutto inutile, uno sforzo azzoppato. Nel corpo del Vecchio continente, infatti, c’è un cancro che emette fumi neri in enormi quantità. Fumi che, trasportati dai venti, avvelenano mezza Europa. Il cancro è quello annidato nel cuore dei Balcani - in particolare in Serbia, Kosovo, Bosnia, Montenegro e Macedonia - e si alimenta di carbone (soprattutto lignite) estratto in gran quantità e usato per produrre energia elettrica in centrali termoelettriche che non fanno danni solo in loco, ma anche a migliaia di chilometri di distanza.
È questa la denuncia – associata a un appello all’Ue perché dia una mano alla regione per cambiare rotta - contenuta in “Chronic Coal Pollution”, approfondito studio firmato da autorevoli organizzazioni come Health and Environment Alliance (Heal), Sandbag, Climate Action Network (Can), Cee Bankwatch Network ed Europe Beyond Coal. Studio che ha messo sotto la lente i vicini Balcani ancora extra-Ue, ricordando che nella regione sono operative «sedici centrali obsolete», vecchie e inefficienti, che «minacciano la salute pubblica producendo inquinamento in enormi quantità», quasi venti volte superiore alle corrispondenti rilevate nella Ue.
Non è una novità. Lo studio però ha svelato che i danni ambientali e sanitari non si limitano ai Balcani, al contrario. Quelle sedici centrali infatti nel 2016 «hanno prodotto più anidride solforosa (So2) che tutte le 250 centrali a carbone» oggi in funzione nella Ue. E solo uno degli impianti balcanici, quello di Ugljevik, in Bosnia, «emette più So2 di tutte le centrali tedesche» insieme. Anche per quanto riguarda il Pm 2,5 i dati «sono ugualmente allarmanti», si legge nello studio. Studio che ha il merito di denunciare anche visivamente le dimensioni del problema – non in miglioramento, causa investimenti, anche cinesi, nel comparto - con mappe che mostrano come i fumi neri delle centrali dei Balcani vengano diffusi in tutta l’Europa.
Quali i Paesi che soffrono per i fumi d’importazione? «Romania, Ungheria, Bulgaria, Grecia e Croazia», si legge, ma anche l’Italia, come pure «Polonia, Germania, Cechia e Austria». Le conseguenze sono state quantificate nel report. Lo smog in arrivo dai Balcani, secondo i modelli usati nella ricerca, nel solo 2016 avrebbe causato 3.900 morti premature, di cui 2.013 in Paesi Ue, con Italia e Romania in testa (circa 370-380 vittime per Paese) e 8.500 casi di bronchite, metà nell'Unione. E poi ci sono i costi economici (tra cui spese sanitarie, ricoveri, malattie croniche, produttività ridotta per assenze dal lavoro) che per gli Stati Ue variano dai 3,1 ai 5,8 miliardi – tra 580 milioni e 1,1 miliardi solo per l’Italia - da 1,9 a 3,6 per i Balcani. Su questo fronte i più colpiti sono Bulgaria, Croazia e Romania, con un impatto tra il 7 e il 18% sulla spesa sanitaria.
«L’inquinamento non rimane circoscritto ai Paesi dove è generato, ma in quantità cospicue supera i confini e più della metà degli effetti ricade su cittadini della Ue, invece che su quelli balcanici», conferma Vlatka Matković Puljić, una fra le autrici principali dello studio e senior health and energy officer di Heal. La speranza è che l’Ue e i Balcani cooperino per il bene comune. Bisogna rapidamente «eliminare» il carbone dal paniere energetico dei Balcani, ha fatto così appello l’ecologista Igor Kalaba, e soprattutto «smettere di investire in centrali già obsolete, puntando sulle rinnovabili», gli ha fatto eco Ioana Ciuta, di Bankwatch. E bisogna farlo presto, con l’Ue che dovrebbe giocare un ruolo-chiave nella regione. «Stiamo pagando» le conseguenze dell'uso del carbone nei Balcani a livello continentale, chiosa Matković Puljić. E «non possiamo permetterci di non risolvere» il problema, ormai cronico. E transnazionale. —
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