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«Spaccia cocaina»: ma era un errore. Tre anni d'inferno per uscirne pulito

Tre anni d’inferno per uscirne pulito. L’odissea di un quarantenne accusato di essere un pusher per colpa di intercettazioni e pedinamenti mal interpretati

2 minuti di lettura

TRIESTE Tre anni di indagini, intercettazioni, udienze e spese legali per un’inchiesta giudiziaria su un giro di cocaina che non lo riguardava. O, meglio, in cui ci era finito per caso. Per un errore investigativo. È successo a un quarantenne triestino, padre di famiglia e con un lavoro normale.

Solo la scorsa settimana, quando il gup Laura Barresi nell’udienza preliminare ha pronunciato la sentenza di assoluzione «perché il fatto non sussiste», l’imputato ha potuto tirare un sospiro di sollievo. «Finalmente». E con lui la moglie: «Siamo logorati».

Un grande equivoco, dunque, frutto di una somma di circostanze sfortunate: un conoscente che consuma coca e una telefonata con un amico in cui “l’indagato per caso” parla della bontà di una «pizza» e della «mozzarella», che gli inquirenti interpretano come un messaggio criptato tra criminali.

Tutto comincia nel luglio di tre anni fa. Gli investigatori stanno pedinando un’automobile con a bordo due individui sospettati di far parte di un traffico di stupefacenti. Quando la macchina raggiunge via Emo, incrocia un altro mezzo: quello del quarantenne. Secondo gli agenti i rispettivi conducenti si sarebbero scambiati un cenno d’intesa. E quindi decidono di seguire anche quel veicolo. Poco oltre, nei pressi di via San Marco, il quarantenne ferma l’auto e fa salire un amico. I due chiacchierano per qualche minuto, poi il passeggero scende e la macchina va via.

L’uomo resta solo. Gli agenti lo fermano e lo perquisiscono. Addosso ha 0,9 grammi di cocaina: messo alle strette, dichiarerà di aver preso la droga dal conducente del veicolo su cui era a bordo poco prima. Cioè proprio il quarantenne triestino, di cui fornisce il numero di cellulare. «Ho preso coca da lui altre volte...». Ma è una calunnia, come ammetterà in udienza lo stesso consumatore. Un modo per dimostrare “collaborazione” con gli inquirenti ed evitare altri accertamenti, come perquisizioni in casa. In pratica ha paura delle conseguenze e quindi mette nei guai un’altra persona. E così il triestino finisce sotto indagine. E pure intercettato: dal suo cellulare, peraltro, nella stessa giornata partono più telefonate dirette all’amico trovato con la dose addosso. Perché? E lo stesso “indagato per caso” a chiarirlo: «Semplice - racconta il diretto interessato - lui è un mio amico. Ci siamo incontrati e avevamo concordato di andare a bere qualcosa assieme, non sapevo assolutamente che avesse con sé droga. Io però in quel momento non avevo soldi per andare a prendere un bicchiere e allora sono andato a fare un prelievo al bancomat. Quindi l’ho lasciato là. Il motivo per cui l’ho chiamato ripetutamente - aggiunge il triestino indagato - è che quando sono ritornato dal bancomat, lui non c’era più. Quindi tentavo di telefonargli per sapere dove fosse». L’amico non c’è perché gli agenti lo hanno portato via dopo avergli pizzicato la droga in tasca. E la macchina dei due ricercati incrociata poco prima in via Emo? Questo è stato chiarito nell’udienza davanti al giudice: i cenni tra i due conducenti non erano altro che segni di ringraziamento tra automobilisti che si danno la precedenza.

Curioso infine il particolare della pizza: in un’intercettazione il quarantenne parla di una «pizza» in compagnia e che l’attesa per riceverla fosse stata «lunga». Per gli inquirenti è evidente che l’indagato fa riferimento alla coca e ai tempi di consegna per averla. Ma, come dimostrato, è una cantonata. La verità è emersa davanti al giudice. «Mi sono sentito perseguitato, perché sapevo di avere la coscienza pulita», commenta l’uomo. Dopo tre anni di calvario, il quarantenne ora ha sul groppone la parcella dell’avvocato. —


 

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