Trieste, coperte e cartoni tornano al Silos
Decine di migranti accampati fra sporcizia e materassi. Sono afgani, pachistani e iracheni che non trovano altro posto dove stare se non nella sporcizia di quell’enorme capannone dimenticato

TRIESTE. Fango e silenzio. Polvere e ombre. Sono tornati. Più di prima. Sono tornati con quelle baracche di cartone e legno, con quelle coperte sudice e nauseabonde che li coprono fin sopra la testa. Dormono per terra, sui materassi, tra cumuli di avanzi di cibo, scarpe, piccioni morti, topi e insetti. Pentole putride ed escrementi. Vestiti e stracci. Eccoli là, facce scure e occhi assonnati, che spuntano dai loro giacigli grattandosi gambe e braccia. Forse zanzare, forse altro. Chissà. Il Silos è popolato da decine di profughi. Quanti? Qualcuno tra loro dice cinquanta o settanta. Altri ottanta o cento. Difficile saperlo con esattezza. Perché la città parallela, a un passo dal centro, resta un mondo nascosto che Trieste non vuole vedere. Afgani, pachistani e iracheni che non trovano altro posto dove stare se non nella sporcizia di quell’enorme capannone dimenticato.
Negli alloggi di accoglienza, gestiti da Ics e Caritas, non c’è spazio. E loro si sono aperti un varco nell’inferriata che circonda la struttura e hanno ricominciato a costruirsi i giacigli. È sempre così: lo era nella passata amministrazione guidata da Cosolini, inondata di critiche e polemiche per aver permesso tutto ciò. Lo è adesso in piena giunta Dipiazza. Oggi come ieri. Sinistra o destra, non fa differenza: il Silos zeppo di migranti certifica, ancora una volta, la resa della politica e delle istituzioni. A poco servono le ordinanze, i regolamenti e le multe per occupazione abusiva. Multe che nessuno pagherà mai, ovviamente. I profughi, che non sanno dove andare, entrano comunque. È questione di sopravvivenza. In un certo senso, ormai è fin troppo chiaro, è come se il Silos facesse comodo. È tollerato. Altrimenti i migranti dormirebbero in strada. Sui marciapiedi e nelle piazze. Allora sì che sarebbe rivolta popolare. Allora sì che l’indignazione si farebbe sentire. Ma lì, «near the station», in parallelo ai binari dei treni, sono ai margini. Dimenticati. L’odore di fumo è intenso. A terra, sparsi in diverse aree, ci sono quelli che comunemente vengono definiti rifiuti. Ogni scarto del mondo di fuori, quello che si apre oltre la rete metallica, all’interno del Silos può invece ritornare utile. Sopra dei pallet sgangherati alcuni iracheni hanno tirato su una baracca fatiscente che, con molta cura e alcuni stracci, sono riusciti a trasformare in un ricovero dignitoso.
Hemn Kadhm Mohammed ha ventinove anni e parla un inglese impeccabile. «Ho vissuto in Inghilterra per tredici anni - spiega mentre sposta dei cartoni e si accende una sigaretta - . A Romford, un popoloso sobborgo londinese, ho lasciato la mia ragazza Sarah, una cittadina britannica, e Dylan, il nostro bimbo di sei anni». Mohammed si è trovato costretto ad abbandonare quella che era ormai diventata «una seconda patria», dove lavorava come barbiere, in seguito al rigetto della sua richiesta di asilo politico. Per descrivere cosa significa dormire sotto le volte del Silos non esita a tirare fuori dalle tasche un verbale che è stato redatto a fine luglio, presso il Compartimento della polizia ferroviaria, dove denuncia assieme all’amico Omar Muhiden di aver subito il furto di tutti i propri averi.
«Non ho più niente - spiega - . Mi è rimasto solo ciò che ho addosso. Questo posto, nel quale vivo da più di due mesi, di notte diventa pericoloso. Molte persone fumano, bevono fino a stare male e diventano violente». Il filo di speranza al quale si attacca il ragazzo iracheno è un foglio con sopra il timbro della Questura di Trieste, sul quale è riportata la data del 15 settembre e l’invito a comparire “per espletare le pratiche inerenti la domanda di riconoscimento dello status di rifugiato politico”. Piani B non ce ne sono, nel caso la richiesta di asilo non vada a buon fine. Eppure Mohammed non perde la speranza: «Sono sicuro che la mia vita andrà meglio - esclama indicando l’ammasso di cartoni sotto il quale ha trovato riparo - . Come potrebbe andare peggio di così?».
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