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I bengalesi del centro: «Regole discriminatorie»

Le misure di Cisint sulla tutela del cuore storico incassano il placet di don Fulvio ma gli stranieri insorgono. Hossain: «Almeno noi riempiamo le vetrine vuote»

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Si è consumato un venerdì grigio, in via Sant’Ambrogio. Umore sotto i tacchi e rabbia strisciante tra gli extracomunitari attivi in città per l’annunciato giro di vite della neo-amministrazione a trazione Lega sulle botteghe etniche, soprattutto call-center e money transfer, fiorite nel cuore storico negli ultimi anni. C’è chi apertamente parla di «politica discriminatoria». Perché via Sant’Ambrogio è diventato un quartiere nel quartiere, un microcosmo esaustivo del crogiolo d’identità presenti a Monfalcone. Di multietnie stratificate. Il Mediterraneo. Il grande Est. L’Asia. La piazza dove i commercianti bengalesi fanno i loro affari, lavorando anche di notte o nei festivi perché «per gli altri è troppo faticoso, ma a qualcuno questi servizi servono».

E quel qualcuno non è rappresentato solo da volti stranieri, ma anche italiani. Al money transfer sotto i portici si rivolgono pure cittadini che parlano la nostra lingua e spiegano come «a Gorizia queste linee non funzionino affatto». All’Istanbul Kebab, che ora si allargherà alla vicina ex fioreria dopo l’acquisizione delle mura, se si passa all’uscita da scuola quasi non ci si entra tanto è pieno come un uovo di studenti. E se glielo chiedi, ai ragazzi, guai a chiuderlo, quel posto: lì la pizza (sì, l’italianissima pizza e non solo kebab) è tra le migliori in città. E pazienza se la sforna il turco Murat Alcu, esercente di 23 anni da 7 in Italia. «Le regole devono essere uguali per tutti e bisogna rispettarle - dice professando perfetta integrazione -. Purtroppo questa via ormai è malvista e non è una cosa bella». Ma Murat ci crede e investe. Si ingrandisce, ligio alle disposizioni: «Ho fatto tutto con regolare geometra», assicura allungando tranci giganti.

Il nuovo sindaco Anna Cisint, comunque, l’ha detto che a chiudere l’esistente non ci pensa (magari a rendere la vita più difficile a chi non si adegua ai regolamenti, sì). Di aprire altri negozi etnici, però, non se ne parlerà più. E nei suoi provvedimenti strong, comunque, trova subito - almeno per la parte che riguarda la tutela del patrimonio storico e culturale di chiese e piazze - il pollice su di don Fulvio, parroco del duomo: «Non potevamo neppure più aprire le finestre della cripta per la puzza di urina. Fa rabbia e pena vedere questi “signorini” ciondolare dietro il campanile senza far nulla. Son pochi e disgraziati. Quindi ben venga la cura dei luoghi, ne avevamo bisogno: per i volontari era una faticaccia pulire tutto». Il decano si riferisce in particolare all’assembramento di sbandati (tutti locali) che gravita nell’area. Alza il gomito e ne combina di tutti i colori. Quanto al commercio «anche a me piacerebbe veder tornare le panetterie in centro, penso potrebbero giovare agli anziani, ma con la politica dei centri commerciali e gli elevati costi di apertura delle attività la vedo dura...».

Fin qui la parrocchia. Poi c’è la componente straniera più agguerrita. «Questa mi sembra una politica discriminatoria verso gli extracomunitari - esordisce Ifath Hossain, 32 anni, originario di Dacca, che gestisce un money transfer -. Mi può anche star bene che non sorgano più negozi come il mio, ma non capisco perché uno straniero, se ha dei soldi per aprire un’attività e non trova altri lavori, non possa avere una bottega. Queste regole non le ho mai sentite prima e sono qui da 16 anni, ma già si sa che succederà qualcosa di strano...». È infastidito, Ifath, perché nessuno «racconta che gli affitti sono di 500 euro se sei italiano e di 700 o 800 se bengalese». «Almeno noi - prosegue - riempiamo le vetrine vuote: qui ci sono negozi sfitti da anni e se ce ne andiamo i nostri locali ora pieni resteranno sfitti. La mia attività è perfettamente legale, la gestisce Banca d’Italia, non c’entra il Comune. Per conto mio queste nuove disposizioni rischiano di essere in contrasto con quelle nazionali: a Trieste ci sono negozi così in ogni angolo». «Io - aggiunge - lavoro anche a tarda sera perché esistono persone che hanno necessità di inviare il denaro a parenti malati che risiedono lontano, non solo stranieri, pure italiani». «Guardano (i politici, ndr) i colori - conclude Ifath - e non si rendono conto che il vero problema è la viabilità di Corso del Popolo, quella sì una via storica per la passeggiata, ora con molta meno vita». Ma ci sono anche i più prudenti, come la 34enne Hena Shahnaz, madre di due figli che aiuta al banco della rosticceria di proprietà del fratello: «Meglio, se non ci potranno essere altri negozi: così non avremo concorrenza. Siamo contenti di lavorare qui, si sta bene. Vogliono regole uguali per tutti? Okay. I controlli? Se ne fanno e non c’è nulla di sbagliato in questo».

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