Il fanale turco di Lepanto dimenticato in soffitta
Il cimelio, conquistato da una galea di Capodistria, finì nella collezione Caprin Ma ora si sta sgretolando. Il conservatore dei Civici musei lancia un appello

Un antichissimo fanale, conquistato dall’equipaggio di una galea di Capodistria ai danni di una turca, durante la vittoriosa battaglia di Lepanto, nel 1571, si sta sgretolando nelle soffitte del Civico museo di storia e arte di Trieste. Il pregiato cimelio - che fa parte della collezione appartenuta allo scrittore triestino Giuseppe Caprin poi venduta al Comune dai suoi eredi - fu dapprima trascurato e, poi, condannato al macero dagli stessi Civici musei.
La conferma della sua nera sorte arriva proprio dal conservatore archeologo dei Civici musei di storia ed arte, Marzia Vidulli. «Nel 1933, all’apertura della sala “Caprin”, nel castello di San Giusto – racconta Vidulli - il fanale fu sistemato sopra lo scalone di accesso alla stessa e servì da lampadario per decenni, ma nessuno si occupò della sua manutenzione».
Il manufatto è alto circa 80 centimetri per 50 di lato, ha base poligonale, scheletro di ferro ed è rivestito con vetro e con legno scolpito e dorato. Di conseguenza, devastato dal tempo e dell’incuria, quel legno carico di storia cominciò a sbriciolarsi. «Visto lo stato in cui versava – continua Vidulli - negli anni ’80 si decise di destinarlo alle soffitte del Museo, mettendone un altro nella sala del Castello».
All’epoca, infatti, le soffitte di via della Cattedrale 15 ospitavano una squadra tecnica composta di falegnami, restauratori, fabbri e quanti, insomma, si occupavano della manutenzione dei Civici musei di storia ed arte e dei cimeli in essi contenuti. Il restauro del glorioso oggetto, tuttavia, fu considerato un lavoro «non urgente».
Così, oggi, Capodistria espone la bandiera della galea “Liona con mazza” la cui ciurma si impadronì del fanale durante la battaglia mentre Trieste possiede quel trofeo da leggenda, ma lo condanna all’abisso dell’oblio.
Sembra però che il fanale ottomano sia restaurabile e che, inoltre, vi sia speranza di vederlo di nuovo esposto. «Il suo maquillage – conclude il conservatore archeologo - è ora una priorità e mi appello alla cittadinanza, sia alle associazioni che ai privati, affinché contribuisca alla ristrutturazione della reliquia che, una volta riportata al suo antico fasto, vorremmo poi ricollocare nella sala “Caprin”».
Comunque finisca l’epopea, le istituzioni di queste terre - i primi baluardi della memoria - hanno ignorato, per quasi un secolo, l’immensa portata che ebbe la battaglia di Lepanto nella storia del Mediterraneo. Il 5 ottobre 1571, infatti, nel golfo di Corinto, si combatté il più grande conflitto della marina del periodo remico che va dal Medioevo in poi. I Turchi erano imbattibili. Strapparono territori a Venezia, conquistarono l’Anatolia e l’Egitto, saccheggiarono le coste dell’Italia, devastarono le isole del Tirreno e sbarrarono la navigazione attraverso il mar Nero. Così, quel pomeriggio di ottobre, le potenze navali cattoliche del Mediterraneo occidentale attaccarono gli Ottomani. Furono scontri furibondi fino al tramonto, con circa 400 imbarcazioni coinvolte. Fra queste, la galea di Capodistria “Liona con mazza”, la quale rientrò trionfante in Patria, con il glorioso fanale a bordo.
Se mai quel nobile cimelio dovesse tornare nel Castello di San Giusto, la nostra città dovrà ringraziare Pietro Valente, geometra in pensione con il vizio della storia. Nato a Capodistria, classe ’37, il signor Valente divora tutto ciò che è storia del Nord Adriatico. Così, dopo aver visto una fotografia del fanale turco scattata in casa Caprin, Pietro presenziò a una conferenza dove incontrò il conservatore archeologo dei Civici musei di storia ed arte. Valente richiamò in vita l’oggetto, domandando al conservatore archeologo informazioni sul suo conto. «Vidulli fu molto disponibile – dice l’appassionato – promise di indagare e, in pochissimo tempo, mi diede notizia del manufatto».
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