Pensione negata all’impiegata Inps
La donna, dipendente per 41 anni, è rimasta vittima di una serie di intoppi burocratici: «Farò causa»

È stata una dipendente dell’Inps per 41 anni, il marito per 38. Davanti al suo e ad altri sportelli ha visto passare quell’umanità dolente che di solito si palesa davanti a quel Moloch insensibile che si chiama previdenza. Poi, una volta passata dall’altra parte, ha capito cosa si prova. Nella maniera più brutale e diretta.
In quiescenza, teoricamente, dal 1° agosto scorso, non ha ancora visto la pensione, solo qualche arretrato. Per motivi di ordinaria burocrazia e straordinaria ottusità. Quella di chi, di fronte a un caso palese di errore del “sistema” ha preferito fare spallucce. Andando incontro ai rischi di una causa persa in partenza.
La signora, che per motivi di privacy chiameremo Franca, nel 2011 dovette confrontarsi per la prima volta con la spending review. Lo Stato voleva mandare a casa 4mila dipendenti Inps, poi si accontentò di qualcuno di meno. «Dopo l’accorpamento dell’Inpdap - spiega - chi poteva andare in pensione lo faceva, grazie ai diritti maturati prima della legge Fornero. Poteva farlo, nel dettaglio, entro il 2013, vantando i diritti precedenti. Teoricamente avrei potuto farlo nel marzo 2013. Subentrata la Fornero , la mia uscita fu subito posticipata di un anno».
Ma cos’è un anno dopo una vita di lavoro? Fastidioso ma ancora accettabile. «Ho chiesto ai colleghi liquidatori - racconta ancora - quando sarei potuta andare in pensione e tutti mi hanno detto: il 1° agosto 2014. Ho aspettato ma si rimandava di mese in mese, finchè nell’estate 2013 ho presentato domanda di pensione. Anzi, arrivò anche una lettera, nel novembre 2013, della direzione centrale risorse umane, firmata dal direttore generale Sergio Saltalamacchia, che mi diceva che avrei potuto farlo il 1° marzo, già abbondantemente passato! O, nel caso, il 1° agosto 2014. Ho accettato, fatto domanda di preavviso tra febbraio e aprile 2014, esaurito le ferie e dal 1° agosto sono rimasta a casa». Saluti, a tutti, baci e cotillon.
E qui subentra Kafka. Arrivano le prime telefonate imbarazzate degli ex colleghi. La pensione non poteva partire perché mancava una settimana di contributi. Quasi incredibile. «Non mi avrebbe cambiato la vita lavorare una settimana in più - ironizza Franca - ma il programma non la comprendeva. Non potevano pagare la pensione. L’unica maniera per uscirne era quella del contributo volontario con decorrenza dal 1° settembre. Ma non avevo fatto io quella scelta!».
Parte l’accertamento. Un collega scopre l’inghippo. C’è un errore nei programmi che avevano calcolato cinque sabati invece di quattro nel mese di luglio. Stallo assoluto. «Scrivo a Saltalamacchia e Crudo della direzione generale - s’infervora l’ex dipendente, ma non mi hanno mai risposto, dopo 41 anni di lavoro!». Alla fine l’epilogo, quasi fantozziano «Ho pagato 282 euro - ammette Franca - per la settimana mancante, e ora sarò costretta fare causa. Anche perchè i dati messi nel computer ora mi conteggiano una settimana in più del dovuto, 2159 settimane invece di 2158! Sanno già che la vincerò, con tanto di danni anche morali. Ha senso che l’Inps si lanci in una cosa del genere quando sa già che è dalla parte del torto... ?».
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