Viaggio dentro il Cie, il mostro che non chiude
La visita in esclusiva dei giornalisti de Il Piccolo. Lavori in corso per rinforzare le inferriate, sistemare nuove sbarre, coprire i corridoi con robuste reti. La struttura riaprirà nei primi mesi del 2015. Eppure di recente il ministro Alfano aveva ipotizzato la sua trasformazione in una struttura meno simile a un carcere

GRADISCA. Un fiume di acciaio trattenuto da argini di mura. Un orizzonte verticale che si intuisce tra una sbarra e l’altra. Un cielo avvolto dalla ragnatela di una spessa rete metallica. E sotto un mondo con tre continenti ciascuno di un colore diverso: verde, rosso, blu. La bandiera della disperazione.
Questo è il mondo chiamato Cie, centro identificazione ed espulsione. Questo è il mondo che sta dall’altra parte della cinta muraria dell’ex caserma Polonio di Gradisca d’Isonzo. Questo è un brutto mondo. Qualcosa comunque sta cambiando a Gradisca e nell’Isontino. Si percepisce un inedito atteggiamento di apertura o meglio di “non paura” delle istituzioni a mostrare la realtà delle strutture governative di accoglienza, favorito anche dal fatto che non ci sono stranieri ospitati in questo momento.
Viaggio dentro il Cie di Gradisca
Era, forse tornerà ad essere popolato da persone non identificate, immigrati extracomunitari senza un nome né un cognome, che sul territorio italiano si sono macchiati di crimini anche gravissimi e che hanno scontato la pena in carcere. Da fantasmi. Dopo il carcere per loro si spalancano i portoni blindati dei Cie. Strutture che assomigliano molto a un carcere.
Recentemente, in commissione Schengen della Camera, il ministro dell’Interno Alfano aveva lasciato intendere che il Cie di Gradisca non riaprirà, se tale è la volontà delle istituzioni locali. Ma a leggerla più attentamente quella dichiarazione non sembra così netta. Anzi, il Cie riaprirà.
Al Cie di Gradisca gli ospiti sono suddivisi in gruppi da otto. Ciascuno di questi gruppi è sistemato in spazi prestabiliti. A loro disposizione ci sono una quarantina di metri quadrati di cortile; uno stanzone con otto letti; una sala con otto tavoli e 42 seggiole e due gabinetti con la porta scorrevole priva di serratura.
Una volta conclusi i lavori di ristrutturazione, forse a settembre di quest’anno, il Cie di Gradisca sarà in grado di contenere 238 persone senza nome né cognome. Lo Stato italiano di loro conserva una fotosegnalazione, lo pseudonome, le impronte digitali. Il Cie da alcuni mesi e per molti altri ancora è un cantiere. Si stanno effettuando lavori per 800 mila euro dopo le rivolte dell’estate-autunno del 2012. Nel settore rosso un gruppo di extracomunitari incendiò i materassi composti da materiale ignifugo ma che per effetto della liquefazione sprigionarono un fumo acre, denso, nero. Una nube tossica. Poi si arrampicarono sui tetti a gridare la loro disperazione. Prima, però, alcuni devastarono la moschea interna alla struttura. Un’azione di inaudita violenza per i musulmani, segno di quanto fosse incontenibile la loro rabbia. Sappiamo bene inoltre dei danni provocati nell’infermeria, resa inagibile, degli episodi di grave autolesionismo (perfino l’inghiottimento di pile) con lo scopo di farsi ricoverare all’ospedale e da qui scappare. Con il prefetto Vittorio Zappalorto siamo entrati al Cie. È la prima volta che un giornalista è ammesso nella struttura senza che sia obbligato ad accodarsi a qualche visita istituzionale.
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«Sono i momenti peggiori - spiega Antonina Cardella, responsabile del Cara per la Connecting People, la società che ha gestito e forse gestirà di nuovo il Cie - . Quando gli ospiti hanno la possibilità di parlare con qualche politico l’effetto rabbia è immediato. E le rivolte sono la conseguenza».
Il prefetto ipotizza che il Cie, una volta rinnovato, possa tornare alle sue originarie funzioni dai primi mesi del ’15. «Siamo in una fase di valutazione su come proseguire i lavori - spiega Zappalorto - . La mia esperienza nel settore mi suggerisce di considerare in un’ottantina il limite massimo di immigrati da ospitare. Andare oltre a questo numero in caso di rivolta comporterebbe conseguenze pesanti sotto il profilo dell’ordine pubblico. Certo, spetta al ministro decidere».
Il settore che più angoscia del “nuovo” Cie è quello degli impianti sportivi. Due campetti di cemento dove si può giocare anche al calcio. Anche qui il perimetro è delimitato da travi di acciaio. Sono alte una quindicina di metri e sorreggono una rete metallica per evitare possibili fughe dall’alto. Sembra impossibile che un essere umano possa arrampicarsi sulle sbarre e saltare oltre da quell’altezza. Invece succede. «Per tutto il giorno non fanno altro che pensare a come uscire - spiega il prefetto - Si tratta di persone aitanti e allenate, con fisici straripanti. Riscono in imprese apparentemente impossibili».
La luce nelle gabbie filtra anche attraverso lastre di plexigas antisfondamento, ma pure queste sono devastate nelle rivolte. Nell’ala delle mense si stanno sistemando gli impianti elettrici e idraulici: sembra di essere in certi musei di arte contemporanea ad osservare installazioni dall’oscuro significato. Qualsiasi impianto, porta, finestra, reter, sbarra, lavandino, letto e cesso sono destinati a saltare come tappi in caso di ribellione. Certo, la decisione sul numero massimo di ospiti non spetta a me».
«Diciotto mesi di permanenza in un Cie sono tanti - ammette il prefetto - . In generale, se non si riesce a identificarli nei primi tre o quattro mesi, è probabile che non si riuscirà a farlo nemmeno dopo. Non c’è adeguata collaborazione con le ambasciate e i consolati esteri. E l’identificazione e la successiva espulsione con accompagnamento alla frontiera comportano costi altissimi per la collettività. Per non parlare dei rimpatri». Per ora il Cie dorme sotto il solleone estivo. Ma tra qualche mese potrebbe ribollire di rabbia incontenibile. È il tempo, ora, adesso, che la politica isontina e regionale faccia davvero la sua parte.
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