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REPORTAGE Bosnia: 20 anni dopo la guerra torna la contesa fra Occidente e Oriente

Cosa è cambiato nello Stato diviso fra serbi, croati e musulmani dal sanguinoso conflitto che ha fatto decine di migliaia di vittime?

5 minuti di lettura

I fedeli hanno indossato i loro vestiti più eleganti per la solenne messa di Pasqua nella Cattedrale del Sacro cuore di Cristo nel centro di Sarajevo. D’altronde la funzione celebrata dal cardinale Vinko Puljic e resa ancora più toccante dal possente coro che addolcisce la dura parlata slava è ripresa da ben quattro telecamere.

Celebrano, a loro volta, per l’opinione pubblica nazionale e internazionale, una multiculturalità innegabile e una convivenza interetnica che, al di là della facciata, nella capitale bosniaca come in tutto il Paese dalla fine della guerra non è riuscita ancora a superare lo stadio della semplice condivisione fisica, in totale sicurezza, di spazi comuni. Un risultato non da poco, in barba all’Europa Occidentale che pretende d’insegnare, dettandone anche i tempi, i comandamenti della democrazia e del “politically correct”. Professioni di “fede laica” che spesso non riesce a rispettare per prima o che, in altri casi, portano alla graduale erosione del suo intero sistema culturale e sociale.

CASERMA ITALIANA

Certo la situazione è di gran lunga migliore che in Kosovo. Ma anche in Bosnia-Erzegovina la condivisione di spazi riesce meglio, almeno per ora ancora, se “a tempo”: per lavoro, affari. Magari anche per il tempo libero ma la mappa delle zone residenziali miste a Sarajevo come a Mostar non è mai tornata quella di prima del conflitto del ’92-’95. Anche se molto è stato costruito o ricostruito: come nel caso dei condomìni che dalla capitale bosniaca accompagnano la strada che dal centro porta alla collina di Zetra e, sulla sommità, all’ospedale omonimo. Qui 20 anni fa, nell’edificio colpito dalle granate, senza servizi e con molte finestre rotte, in pieno inverno si era acquartierato il contingente italiano della missione a guida Nato Ifor (Implementation Force), incaricata di fare adempiere gli Accordi di pace di Dayton.

Ora la struttura è stata rinnovata e funziona come clinica ginecologica. Sono lontani i tempi nei quali i gornalisti inviati a seguire le attività delle nostre Forze armate per mancanza di alternative e per motivi di sicurezza venivano fatti alloggiare, sotto discreta sorveglianza, da Sharif, improvvisato affittacamere e quindi improvvisato “nuovo ricco”, che militari e reporter chiamavano un po’ per simpatia e un po’ per celia Sceriffo.

Sarajevo è piena di vita, non mancano hotel di ogni categoria, ristoranti, centri commerciali, boutique e tutta la panoplia della globalizzazione anche se il centro storico è stato saggiamente preservato dalle ”ferite” eccessive della modernità. L’economia non è però ancora riuscita a superare la fase di post-conflitto e langue: di recente, insieme alla corruzione della classe dirigente, ha scatenato violente proteste in tutte le città del Paese. Il taxista, un ragazzo che dopo avere vissuto a Vienna qualche anno è tornato in Patria, scendendo da Zetra dà un’anticipazione di uno dei motivi del ristagno economico. «È risaputo - spiega riferendosi al primo presidente e “padre della Patria” della Bosnia indipendente - che Alija Izetbegovic prima di morire aveva raccomandato di non fare salire al potere il figlio Bakir». E accompagna alle parole il gesto internazionale che simboleggia il furto.

Bascarsija, il quartiere turco, il cuore storico e multiculturale della città adagiata sulle sponde della Miljacka, serpente marrone dalle acque agitate, pullula di turisti, di stranieri e di residenti. Nulla a che vedere con lo scarso andirivieni di un ventennio fa, quando la città mostrava pietosa edifici semidistrutti, crivellati dai segni di raffiche e bombe, tra sporcizia e strade a tratti impossibili.

UNA CITTA’, DUE IMPERI

La storia si ripete: Sarajevo, come in tanti secoli passati, è contesa e divisa tra Turchia e Germania, le nazioni succedutesi agli imperi che hanno dettato legge nella regione, l’Ottomano e l’Austro-ungarico, con il “cugino” tedesco. Se gli italiani si riducono a un paio di comitive in pullman, che magari hanno allungato il percorso dalla non lontana Medjugorje delle asserite apparizioni mariane, i visitatori e gli uomini d’affari che si esprimono nella lingua di Goethe sono ovunque: i primi per lo più sportivi e spartani, i secondi a passeggio magari in attesa della ripartenza dopo la Pasqua.

Ma è la Turchia, quella sempre più islamica e islamofila del premier Recep Erdogan, ad avere preso, o ripreso, possesso della città o almeno di gran parte della sua scena culturale ed economica: e lo è in maniera evidente.

Ankara, oltre ad avere blindato numerosi accordi commerciali, ha “pompato” un fiume di denaro nel Paese e a Sarajevo, contribuendo in città al restauro e al riordino di molti edifici storici legati alla dominazionee turca e promuovendo numerose attività culturali e di studio, oltre ad avere aperto proprie banche, agenzie di viaggio e altri servizi. La “turconostalgia” ormai trionfa e le insegne commerciali nella lingua parlata in riva al Bosforo sono ovunque dell’antico suk.

Dopo avere superato sullo scomodo acciotolato di pietra bianca il cosiddetto “angolo dolce” (Slatko cose) e la via dei Sellai (ulica Saraci) che attraversa un pittoresco angolo di piccole botteghe e animati laboratori di artigiani, ci si imbatte, tra le tante vestigia ottomane, nel complesso legato alla moschea del bey Gazi Husrev, governatore della Provincia di Bosnia nel 1500 e grande benefattore. Nell’ombroso cortile dell’edificio di culto dall’alto minareto, un giovane turco ne spiega la storia a un gruppo di barbuti coetanei. Se l’acconciatura da mujaheddin di due schivi ragazzi dalla pelle scura nel comprensorio della moschea fa alzare un sopracciglio, ben maggiore sorpresa desta, a colpo d’occhio, la stessa foggia di “onor del mento” portata con nonchalance da alcuni giovani locali alti e biondi, dall’aspetto più scandinavo che balcanico. Evidentemente l’Islam esercita un richiamo anche nei suoi aspetti esteriori.

Buona parte dell’area di Bascarsija “parla” del nobile turco Gazi Husrev, che con donazioni aveva fatto costruire oltre alla moschea fontane, una scuola coranica e una biblioteca, anche questa ora ricostruita da Ankara.

Della Nazionale, quella “storica”, le cui immagini in fiamme nell’agosto ’92 durante l’assedio avevano fatto il giro del mondo, il restauro sta finendo e a giorni ne è prevista la re-inaugurazione.

FRATELLANZA MUSULMANA

Intanto accanto alla Sebilj, la fontana simbolo del suk, ritratti del presidente egiziano Morsi e cartelli con il simbolo delle quattro dita aperte volteggiano sopra le teste di giovanissime ragazze in impermeabile, foulard e jeans o gonna lunga. Sono turche e con i loro compagni di studio frequentano le facoltà dell’Università di Sarajevo. Stanno manifestando a favore dell’esponente della Fratellanza musulmana regolarmente eletto al Cairo ma poi punito dopo avere preso una rotta giudicata da rivali locali e Occidente troppo autoritaria e anti secolare. Tutto si svolge senza intoppi, alla vista di uno sparuto gruppetto di poliziotti.

Il bancone esterno del negozietto di Amir, vicino all’antico caravanserraglio trasformato in bar ristorante, il preferito delle attiviste musulmane dopo il corteo, balza subito all’occhio.

Calendari da muro e da tavolo, fotografie, libri e cd-rom inneggiano apertamente al Maresciallo Tito, la vecchia volpe socialista che era riuscita a tenere insieme la Jugoslavia dalla fine della Seconda guerra mondiale alla sua morte nel 1980. «Quando c’era lui - risponde in inglese a chi gli chiede se sia convintamente “jugonostalgico” - eravamo qualcuno, ora non siamo nulla. Se si vendono questi gadget? Sì, sì: per curiosità, per folklore ma anche per rispetto e amarezza per i tempi andati». Amir continua: «Ero ragazzino quando è morto, ma ricordo un’infanzia felice, che tanti oggi qui e nell’ex Jugoslavia neppure se la sognano». Anche lui ha lavorato all’estero, a Dusseldorf per 10 anni. Ma è tornato nel suo Paese e vorrebbe che anche i suoi connazionali facessero altrettanto o restassero direttamente in Bosnia a lavorare per fare crescere la propria nazione: «Sono contrario all’abolizione dei visti, tutto ciò sta portando allo svotamento del Paese. E pensare che qui c’è tanto da fare». A chi gli fa notare che ci sono molti bosniaci nel Nordest d’Italia, una regione non più ricca come una volta, e che il continuo arrivo d’immigrati dalla Libia sta mettendo in ginocchio non solo il sistema dei soccorsi e dell’accoglienza ma sta creando gravi difficoltà di bilancio, Amir replica drastico: «Avreste dovuto sparare alla prima nave, ancora tempo fa, sotto la linea di galleggiamento. Certo, non per uccidere, ma avreste convinto quella gente a tornare da dove era venuta. E non ne sarebbe venuta più». Ad ogni modo l’immagine che il sempre più sciupato Belpaese gode come “paradiso” per immigrati, richiedenti asilo e clandestini non si appanna agli occhi del venditore “jugonostalgico”, come pure a quelli di tanti altri stranieri. Neppure al racconto di come ormai in Italia, proprio nell’ex prosperoso Triveneto, i bambini di alcune elementari siano stati costretti questo anno a portare da casa carta igienica, fazzolettini o risme per mancanza di budget destinati a quella “voce di spesa”.

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