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Oslobodenje: un quotidiano in trincea

I giornalisti: «Manca una vera capitale: come può svilupparsi un Paese diviso in tre Stati?»

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Scendendo la vallata che dal centro storico si apre verso la Sarajevo moderna e oltre, verso l’aeroporto, ci s’imbatte nella sede del famoso quotidiano “Oslobodenje” (“Liberazione”), che con una redazione multietnica garantì da una redazione-bunker, dopo la distruzione della sede nel luglio ’92, l’uscita in edicola del giornale tutti gli interminabili giorni, tranne uno, del pluriennale assedio serbo della città. Imbattersi forse è un termine eccessivo: il vecchio palazzo sede del quotidiano è stato avviluppato da una “scorza” di alluminio-cemento che quasi nasconde l’insegna del giornale, mettendo invece in bella mostra i simboli della nuova concessionaria Bmw ospitata al pianoterra. La “torre”, immortalata semidistrutta dalla bombe nei Novanta, è “risorta” quale algida location dello sconcertante Hotel Radon.

«Il problema della Bosnia-Erzegovina non è la mancanza di capitale, ce n’è, e molto, ma il suo assetto istituzionale. Come può esserci un’unica strategia di crescita e priorità economiche se il Paese è di fatto diviso in tre Stati? Ognuno ha una sua visione, sue priorità, suoi obiettivi: spesso in contrasto con quelli degli altri» spiega Jakub Saltic. Il 30enne redattore economico è tra i pochi presenti nei lunghi corridoi e nelle ampie stanza dal mobilio di legno scuro, così elegante, comodo e “demodè”. È un giorno festivo e la redazione è a ranghi ridotti. «Se si aggiunge - continua - che abbiamo molti giovani manager con un’ottima formazione teorica ma senza esperienza pratica, allora si capisce come siamo ancora in piena impasse». A differenza che in Italia e in Occidente, qui la carta stampata non conosce la grave crisi che il settore registra da anni: «Leggere i quotidiani è una tradizione; noi con una redazione tra i 40 e i 50 giornalisti, sparsi nelle varie città del Paese, vendiamo 30mila copie. Ce la caviamo».

OLIMPIADI E GRANATE

Sulla strada per il Monte Igman, altro luogo-simbolo della guerra di Bosnia e dell’assedio di Sarajevo durato dall’aprile 1992 al febbraio 1996, anche se in realtà le ostilità vere e proprie erano cessate qualche tempo prima, si costeggia Butmir, la località del “tunnel della speranza”. Scavato nella zona dell’aeroporto dal dicembre ’92 per oltre quattro mesi, lungo 800 metri, alto 1,5 metri e largo uno, aveva costituito per lungo tempo l’unico “cordone ombelicale“ della città con il mondo, l’unica via di riformimento e di evacuazione dei feriti per le forze armate bosniaco-musulmane e la popolazione. Una delle due uscite era stata situata nella cantina dell’abitazione di una famiglia, che oggi vive del lucroso business del ricordo dopo la trasformazione della casa in museo privato.

«La strada dell'Igman è la strada della vergogna dell'Europa» aveva dichiarato durante la messa il cardinale Vinko Puljic nell’estate del ’95, dopo che sulla montagna erano morti in un "tragico incidente", tre negoziatori statunitensi e un militare francese. Facevano parte della delegazione del sottosegretario Usa per l’Europa e capo negoziatore Richard Holbrooke e il loro blindato era precipitato dalla carreggiata in un precipizio, mentre quello del celebre diplomatico si era salvato. Oggi, ovviamente, per salire sul monte delle Olimpiadi invernali del 1984 ma anche delle aggressive postazioni dei serbo-bosniaci che cingevano d’assedio la città, non si percorre più quella carrareccia sterrata. L’asfalto è in ottime condizioni e mano a mano che si sale, l’ultima neve di primavera comincia a chiazzare di bianco i lati della strada, il sottobosco e i prati fino a diventare, nelle conche interne del massiccio montuoso, un uniforme manto bianco. Il candore è spazzato non solo dai pini ma, in maniera ben più impressionante, dalla manciata di edifici costruiti per “Sarajevo ’84”, utilizzati come basi e rifugi, dai militari di un po’ tutti gli schieramenti, “caschi blu” compresi, e come tali bersagli privilegiati. I rozzi e massicci edifici di cemento sono letteralmente squartati e anneriti; lapidi di pietra chiara in forma di muri riportano i nomi dei Caduti: sono decine.

Campo Piccolo (Malo Polje) è una raduna interna, non intersecava alcuna linea di confronto e perciò è stata risparmiata da jet militari e cannoni: vi erano state edificate le strutture per le gare di salto con gli sci. I due trampolini sono ancora intatti, come la cabina di giuria, dalla forma così singolare. Alla base un piccolo skilift sembra esere stato dismesso da pochi giorni, al termine della stagione turistica. Un segno di vita nel silenzio e nella solitudine, come il gruppetto di cani randagi che sfrecciano fulvi, energici sui prati stagliandosi sulla neve. Non c’è da stupirsi: nei Balcani spesso vita e morte hanno inscenato un tragico rimpiattino e Sarajevo non fa eccezione. Anzi, ne è uno dei simboli.

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