Carninci, il triestino che in Giappone svela i segreti dei geni
Piero, quarantottenne, vive e lavora a Yokohama da quasi vent’anni e coordina uno dei maggiori consorzi mondiali di biologi molecolari

Parla correntemente il giapponese, imparato da autodidatta (gli serve quando va nei ministeri a discutere di finanziamenti). È popolare tra gli anziani del parco Mitsuzawa di Yokohama City, per essere l’unico jogger straniero mattutino in compagnia dell’amato Tony, un golden retriever di otto anni. Gioca da centravanti nella Lega Yokohama Old Boys e… "a tempo perso"... ha un ruolo di primo piano nel coordinamento di uno dei maggiori consorzi mondiali di biologi molecolari, il Fantom5, dell’Istituto Riken, a Yokohama.
Piero Carninci, triestino di 48 anni, ex del liceo classico Dante, in Giappone da quasi vent’anni, ha centrato l’ennesimo traguardo. Uno di quelli che si studieranno all’università fra qualche anno. Con il suo gruppo, nell’ambito di un progetto che ha coinvolto centinaia di ricercatori inclusi i triestini Stefano Gustincich e Claudio Schneider, ha coordinato uno studio internazionale che ha mappato i geni umani espressi dalle cellule del corpo. La mappa, col tempo, servirà a sviluppare terapie personalizzate e a perfezionare la medicina rigenerativa. Carninci racconta le fasi e il senso di questa impresa, appena pubblicata dalla rivista Nature e da altri giornali scientifici.
Cosa significa costruire un catalogo dei geni umani attivi?
«Significa capire quali proteine produce ogni cellula durante una giornata tipo, nel corso della sua esistenza. Il nostro corpo possiede circa 400 tipi diversi di cellule, tutte con lo stesso Dna. Ognuna, però, accende solo alcune regioni di questo Dna, per produrre solo alcune proteine: quelle che servono al tessuto e all’organo di cui la cellula è parte».
Quanto tempo e quante persone per questo traguardo?
«Abbiamo impiegato circa quattro anni di lavoro. Non molto, e solo perché il terremoto/tsunami di tre anni fa ha danneggiato i laboratori, mandando in fumo parte dei campioni, impedendoci di lavorare per mancanza di elettricità. Quanto alle persone, sono circa 230 i ricercatori che hanno lavorato al progetto, in 14 paesi del mondo. Ormai è così che si fa scienza: il ricercatore isolato, chino sul bancone, non può raggiungere più alti livelli».
Chi ha fornito il Dna per le analisi?
«Le cellule umane (ci siamo concentrati su 180 tipi diversi di cellule, dei 400 che l’uomo possiede) sono state donate da volontari sani adulti, scelti in modo da avere la maggior varietà ed eterogeneità possibile. Lo sforzo è stato imponente: ognuno dei 975 campioni di cellule umane e dei 399 campioni di cellule murine è stato analizzato tre volte, in modo da confermare il risultato. In parallelo, abbiamo esaminato anche 250 linee cellulari tumorali, 152 tessuti umani prelevati post-mortem, e altri campioni murini. Si può intuire la mole di lavoro».
Avete scoperto qualcosa che non vi aspettavate?
«Sì. Abbiamo identificato e mappato 180mila promotori genici sul Dna. I promotori sono regioni da cui parte la trascrizione, quel processo che trasforma l’informazione genica in una molecola intermedia, l’Rna messaggero, e poi in proteina. E poi abbiamo localizzato e descritto 44mila “enhancer”, sequenze di Dna che aumentano la frequenza con cui è trascritto il gene che essi controllano».
Perché siete stupiti?
«Perché i geni umani sono circa 20-22mila, appena 3-4mila in più dei geni del verme Caenorhabditis elegans. Eppure l’uomo è assai più complesso del nematode in questione. Come mai? Forse adesso abbiamo la chiave di lettura: promotori ed enhancer sono simili a direttori di orchestra dietro le quinte. Sono loro a dire quali proteine produrre, dove e in che quantità. Sono loro a decidere quali geni accendere e spegnere, per soddisfare di volta in volta le necessità della cellula e dell’organismo».
Dunque non è il numero di geni a fare dell’uomo… un uomo?
«No. È il modo in cui i geni sono regolati. Con 10mila mattoni possiamo costruire un arco romano, un muretto carsico, una cappella con frontone e colonne. Tutto dipende dal progetto dell’architetto. Così è con i geni e le loro proteine: sono mattoni assemblati in base al progetto di quel momento».
È la prima volta che uno studio mappa così finemente l’architettura del Dna. Si deve alla tecnologia che avete usato, sviluppata da voi, al Riken?
«Si, la tecnologia Cage ci ha svelato che ogni regione del genoma può essere letta in modi diversi. Cage ci permette di acchiappare gli Rna (i precursori delle proteine) tramite una sequenza “cappuccio” che sta all’inizio dell’Rna stesso, e consente di mappare finemente la trascrizione».
Questo risultato aprirà nuovi business per le aziende biotech?
«Sta già succedendo. L’americana Promega, che produce enzimi e materiali per biologia molecolare, sta clonando molti dei promotori che abbiamo scoperto, mentre un’altra azienda sta allestendo kit da vendere a chi voglia replicare il nostro studio, ma su altre cellule».
E voi cosa avete in cambio da queste aziende?
«Nulla. I nostri risultati sono pubblici. A noi resta… la gloria. E la fiducia che questi risultati potranno spingere la scienza verso applicazioni future sulla salute umana».
©RIPRODUZIONE RISERVATA
I commenti dei lettori