Roberta De Falco? Sono io
Dietro il nome d’arte di chi firma il romanzo “Nessuno è innocente” ambientato a Trieste c’è la sceneggiatrice Roberta Mazzoni

di Alessandro Mezzena Lona
Il nome è lo stesso, ha cambiato solo il cognome. Perché Roberta Mazzoni, quando si è messa a scrivere romanzi gialli ambientati a Trieste, ha preferito sparire dietro le sue storie. Allontanarsi da una carrierra di sceneggiatrice che l’ha portata a lavorare a progetti anche importanti: “Interno berlinese” di Liliana Cavani, “Va’ dove ti porta il cuore” di Cristina Comencini, “Nel mio amore” di Susanna Tamaro, i televisivi “Promessi sposi” e “La famiglia Ricordi”. Così è nata la scrittrice Roberta De Falco.
Milanese, figlia di un architetto, nel 1976 Roberta Mazzoni si è trasferita a Roma per lavorare nel cinema. Poche settimane fa ha debuttaato come scrittrice, pubblicando con Sperling & Kupfer il suo primo thriller, «Nessuno è innocente”. che presenterà venerdì, alle 18, alla Libreria Ubik, in Galleria Tergesteo a Trieste.
Per lei, che frequenta Trieste da vent’anni, ambientare la sua prima storia tra un delitto e un refolo di bora è stato normale. Come sparire dietro il suo “nom de plume”: Roberta De Falco.
«Ho scelto uno pseudonimo perché il mio cognome vero non mi sembrava molto adatto per una scrittrice di thriller - spiega -. E poi, mi divertiva molto il fatto di iniziare un percorso nuovo con un nome nuovo. E se non basta, molti autori hanno scelto il cosiddetto “non de plume”: penso ad Alberto Moravia, ma anche a Umberto Saba e Italo Svevo».
Insomma, crede più nelle storie che nell’identità dell’autore?
«Non credo che il thriller sia un genere dove l’autore ha bisogno di stare in primo piano. Contano le storie forti, non chi le scrive. E la mia sfida è stata proprio questa: buttare sul mercato un libro senza accompagnarlo con l’identità di chi lo firma».
Quindi getta la maschera, ma non rinnega Roberta De Falco?
«Assolutamente non la rinnego. Anzi, continuerò a firmare i miei prossimi libri con questo pseudonimo. Del resto, nessuno pretende che Sveva Casati Modignani metta il suo vero nome sui romanzi. Farò delle presentazioni, ma non mi lascerò stritolare dal meccanismo del marketing».
E chi la conosce come sceneggiatrice?
«Il mio non è pudore. Non ho segreti da nascondere. Voglio solo essere giudicata come scrittrice, stando alla larga dai pettegolezzi che servono oggi per “lanciare” un personaggio sui giornali».
Com’è nata la De Falco?
«Un’amica mi ha detto: come, tu che sei una sceneggiatrice non scrivi un romanzo, un giallo? E con queste parole ha dato voce a un’idea che mi girava in testa da un po’. Anche perché sono una grande lettrice di thriller psicologici stile Agatha Christie».
E l’idea di partenza?
«Me l’ha fornita la stessa amica. Dicendomi: immagina un’anziana signora con una badante accanto. Ecco, è bastato quel frammento di storia per mettere in movimento la mia fantasia. Da quest’immagine ha preso forma il personaggio di Ursula Cohen, la vecchia ebrea che muore proprio nelle prime pagine di “Nessuno è innocente. ”».
Perché ambientare il romanzo proprio a Trieste?
«Perché è una città che conosco e che amo. Ma soprattutto, perchè è il teatro perfetto dove ambientare il tipo di storie gialle che mi piace raccontare».
Che tipo di storie?
«Quelle che si radicano nella Storia. Trieste è una città drammatica, che ha vissuto a lungo al confine con la galassia del comunismo. Ma è anche un luogo segnato dall’orrore della Risiera, l’unico campo di sterminio italiano, e dal dolore per l’esodo degli italiani dall’Istria e dalla Dalmazia».
Quindi la Storia sarà la grande burattinaia anche dei prossimi due romanzi?
«Il secondo libro della trilogia, che sto finendo, avrà al centro i riverberi della guerra dei Balcani. Il terzo, invece, girerà attorno al tema dell’esodo degli istriani».
I suoi gialli strizzano l’occhio ai classici del genere...
«Ecco, quando mi sono messa a scrivere ho scelto proprio questa strada. Evitare, cioè, di esplorare i lati più torbidi della nostra realtà. Il mio commissario Ettore Benussi non è il classico cinico, puttaniere, che ormai non crede più in niente. Ha una famiglia, una moglie da vent’anni da cui non è separato, anche se non mancano i momenti di crisi. E una figlia che gli crea non pochi problemi».
A chi assomiglia Benussi?
«Un po’ ai miei pensieri. Per esempio, questo suo rapporto difficile con il cibo mi riguarda da vicino. E poi il suo senso di frustrazione per come gli architetti stanno stravolgendo le nostre città. Io sono figlia di un architetto e sono allibita davanti allo scempio fatto da tante firme del ’900. Abbiamo perso di vista il concetto di armonia».
Un uomo stanco, non solo perché è vicino alla pensione.
«Questo senso di stanchezza è comune a tutti, nel nostro tempo. Sembra che qualcuno ci abbia sottratto la speranza. Benussi prova questo senso di sfinimento, ma trova nei rapporti umani il coraggio di non arrendersi».
Sulla scena della sua storia si affollano molti personaggi...
«Sono loro che mi aiutano a illuminare le storie che scrivo. Io devo solo ascoltarli, seguire le loro parole. Per esempio Violeta Amado, la badante brasiliana di Ursula Cohen, mi ha suggerito una battuta splendida. Quando dice che gli uomini cercano nelle donne o la mamma o la puttana. E aggiunge che lei è troppo giovane per fare la mamma e troppo vecchia per essere puttana».
La scrittura la diverte?
«Molto. A volte, mi viene talmente facile scrivere la storia che ritorno indietro e dico: no, è troppo semplice. Così, aggiungo qualche elemento che arricchisca quel passaggio della trama».
E se le chiedessero di farne un film?
«Forse più un film per la tivù. Perché il cinema, ormai, in Italia è morto. Fare gli sceneggiatori procura un sacco di amarezze. L’ultima parola ce l’hanno sempre il regista o il produttore. Non c’è libertà di creare. No, devo dire che il mio mestiere non mi piace più».
Però è una buona scuola?
«Gli sceneggiatori americani dicono che un buon film deve seguire i ritmi della vita. Ecco, se provi a scrivere un romanzo questo suggerimento è davvero ottimo. Soprattutto se, come accade a tutti noi oggi, dobbiamo intrecciare mille storie, con mille personaggi, tra loro. In fondo, siamo un po’ tutti figli di “Beautiful”».
Nel cinema, chi le ha insegnato di più?
«Ho lavorato moltissimo con Enrico Medioli, che è stato sceneggiatore anche per Luchino Visconti. Abbiamo fatto insieme “I promessi sposi”, “Casa Ricordi”. Lui mi ha insegnato che il cinema è anche letteratura. Devi sapere, devi leggere molto. Il cinema non è solo descrizione di comportamenti, ma deve avere un’anima. Deve spiegare le ragioni, deve raccontare l’inquietudine. C’è una frase molto bella di Danilo Kiš, il grande scrittore de “L’enciclopedia dei morti”, “Giardino cenere”».
Che cosa diceva?
«Hanno ucciso l’homo poeticus per sostituirlo con l’homo politicus. E non ci rendiamo conto che siamo fatti di poesia, letteratura, arte. Quelli che si occupano dell’Italia, in questo momento, sarebbero in difficoltà anche ad amministrare dei condomini».
alemezlo
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