Il direttore del "Piccolo" che sabotò il giornale al tempo dei nazisti
Uno studio di Guido Botteri ricorda la figura di Rodolfo Maucci chiamato dai tedeschi alla guida del quotidiano triestino nel 1944 Uno studio di Guido Botteri ricorda la figura di Rodolfo Maucci chiamato dai tedeschi alla guida del quotidiano triestino nel 1944

Alle 9.15 in punto del 13 gennaio 1944, Rodolfo Maucci ricevette una telefonata che lo convocava al Palazzo di Giustizia di Trieste, dove si era insediato il Gauleiter nazista, Friedrich Rainer. Nato in Carinzia da padre austriaco a madre italiana, laureato a Vienna, professore di tedesco al liceo “Oberdan”, collaboratore alle pagine culturali del quotidiano “Il Piccolo”, autore di vari libri di lingua e letteratura tedesca, in buoni rapporti con alcuni colleghi apertamente antifascisti, Rodolfo Maucci era stato scelto da Carlo Lapper, capo dell’ufficio stampa del Supremo Commissario nazista del Litorale Adriatico, per assumere la direzione proprio del “Piccolo”. Buttato fuori Idreno Utimperge, fanatico fascista che dopo l’8 settembre si era autonominato direttore del quotidiano triestino, tolto di mezzo il direttore pro tempore Herman Carbone funzionario della Prefettura, esclusa la candidatura del fascista Enzo Pezzato, messo da parte anche l’autorevole critico teatrale Vittorio Tranqulli che aveva avuto l’ardire di pubblicare una cartina con l’avanzata delle truppe russe, Rodolfo Maucci era stato scelto perché gradito agli occupatori e per il ruolo di “mediatore” che ricopriva in città nei confronti delle gerarchie fasciste. La chiamata alla direzione del quotidiano triestino non fu un invito, ma un ordine, cui Maucci obbedì controvoglia nella convinzione che un rifiuto avrebbe avuto come conseguenza la sua deportazione e, comunque, l’insediamento alla guida del giornale di qualcun altro più disposto di lui a obbedire ai nazisti.
Sin dal momento in cui mise piede da direttore nella storica sede del “Piccolo” in via Silvio Pellico, Maucci ebbe ben chiaro quale delicatissimo compito lo attendeva, conscio oltretutto di cosa gli sarebbe successo una volta finita la guerra e sconfitto il nazi-fascismo. Perciò, uno dei primi atti del suo mandato fu stilare un diario segreto in cui annotare giorno per giorno ogni scelta motivata, ogni ordine ricevuto, ogni rapporto con i nazisti, ogni velina che sarebbe stato costretto a pubblicare. Tutte le sere, prima di lasciare la redazione, Maucci dettò alla sua segretaria una sorta di autodifesa quotidiana, allegando al diario lettere, documenti, comunicati stampa, tutto quanto poteva servire a formare un dossier difensivo nel caso fosse stato costretto a dare conto del suo operato dopo la guerra. Non gli sarebbe servito, almeno non in vita, perché Maucci morì di crepacuore poche settimane dopo la liberazione dai nazisti, durante l’occupazione jugoslava della città. Il diario, già oggetto di studi ma tuttora inedito, è conservato all’Istituto regionale per la Storia del movimento di liberazione, e rappresenta uno straordinario documento sul periodo dell’occupazione nazista di Trieste.
Ed è stato proprio confrontando direttamente il diario con le pagine del “Piccolo” di quel periodo che . Guido Botteri ha scritto un saggio dal titolo “Il Piccolo sotto i nazisti nel diario di Rodolfo Maucci”, pubblicato nell’ultimo numero dell’Archeografo Triestino, presentato sabato sera nell’ambito dei “Sabati Minervali” al Museo Sartorio. “Collaborazionista o mediatore?”, si chiede Botteri nel suo scritto, che analizza i momenti più drammatici e salienti della direzione Maucci. Difficile dare una risposta, conclude Botteri, che definisce Maucci un “tragico Don Abbondio”. Ma dallo stesso saggio di Botteri emerge una figura assai più complessa e tormentata di un letterario “Don Abbondio”. Ne esce piuttosto un personaggio quasi archetipico, che rimanda ai rapporti tra vittima e carnefice, tra potere e libertà di espressione, tra coraggio e viltà (non a caso la sua storia già ha ispirato una piéce teatrale).
«Tutti i propositi miei si concentrano in questo: poter dire un giorno, ed a fronte alta, che nonostante il posto che ora sono costretto a coprire, non soltanto non ho collaborato con i tedeschi, ma ho cercato di sabotare, anche nelle limitate possibilità del giornale, i loro piani riguardo alla stampa». Scrive così Maucci nel suo diario segreto di quei giorni, inziando un percorso pericoloso e irto di difficoltà. Gli esempi riportati da Botteri sono molti. Già da subito, il 14 gennaio, Maucci finisce nei guai per aver “dimenticato” di dare notizia dell’uscita del primo numero della rivista portavoce del Gauleiter “Adria-Zeitung”. Quando poi gli arrivano le veline opera con il bisturi limando parole, aggettivi, virgole. Annota il 20 aprile: «Sono rimasto fino alle tre del mattino al giornale per rivedere e correggere insieme con Tigoli tutti gli articoli che trattano del Führer. Era il lavoro di un farmacista che pesa con la bilancia dei veleni». Quando il 22 aprile viene compiuto l’attentato al palazzo Rittmeyer (oggi sede del conservatorio Tartini) che manda all’altro mondo cinque soldati tedeschi, e i nazisti per rappresaglia impiccano 51 innocenti, Maucci viene aspramente rimproverato - ricorda - perché «il Piccolo non ha portato neanche una parola di condanna del fatto commesso contro il Soldatnheim». E quando, in luglio, altre bombe scoppiano nella caserma di Roiano e nella scuola di via Ruggero Manna occupata dai nazisti, Maucci è costretto a redigere un commento (che Botteri nel saggio riporta integralmente) dove ogni parola, ogni virgola viene soppesata e valutata. Alla fine Maucci scrive sul diario: «Ho riletto il commento: ho l’impressione di esservi riuscito a dire quello che volevo dire, pur dicendo quello che dovevo dire». Poco alla volta il Piccolo diventa un foglio quasi anonimo, misero, poco più di una vetrina dei comunicati dei comandi nazisti. Se ne accorge persino Mussolini, il quale, riferisce il prefetto Coceani, dice che “Il Piccolo diventa ogni giorno più scialbo”. «Non posso che ringraziare Mussolini per questo elogio», registra Maucci sul diario.
Primo aguzzino del riluttante direttore è Anton Cerjak, giornalista tedesco responsabile del reparto censura dell’Ufficio stampa e propaganda del Supremo Commissario. Tra i due è una continua partita a rimpiattino. Cerjak non perde occasione per accusare Maucci di sabotaggio, ma Maucci in fondo non nasconde una certa stima per Cerjak, giornalista che è il primo, in alcune occasioni, a riconoscere l’assurdità delle scelte dei suoi comandi. Quando, in aprile, Cerjak consegna al direttore tre articoli sulla lotta ai partigiani commissionati dalle SS, Maucci si rifiuta di pubblicarli. Al che Cerjak - si legge nel diario - replica: «Io non li approvo affatto ma (...) lei sa a che cosa ci si espone, rifiutandosi di pubblicarli. Non vale la pena andare al campo di concentramento e di morire per una roba come questa».
Dopo la guerra il diario non basterà a salvare Maucci dal timbro infamante del collaborazionismo. Ferruccio Fölkel avrà per lui parole durissime: “Un collaborazionista senza altri aggettivi”. E non sarà il solo. Il saggio di Botteri ha il grande merito di riportare alla coscienza e alla memoria uno dei tanti dilemmi della nostra storia.
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