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Sarajevo ricorda l’assedio con 11.541 sedie vuote

La città bosniaca celebrerà il ventennale della guerra con un concerto in piazza Ma la platea conterrà solo posti deserti: uno per ogni abitante assassinato

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BELGRADO. La lista degli spettatori è pronta da oltre 16 anni. Include l’anziana Ziba Custovic, centrata da una bomba. Kenan Cizmic, ammazzato mentre era in fila per riempire d’acqua una tanica. Elma Jakupovic, bimba di due anni freddata da un cecchino. Le decine di vittime dei due massacri del mercato di Markale, trucidate da colpi di mortaio. E poi tutti gli altri, gli 11.541 abitanti di Sarajevo assassinati dall’artiglieria e dai tiratori serbo-bosniaci tra l’aprile del 1992 e il febbraio del 1996. A 20 anni dallo scoppio del conflitto in Bosnia, saranno presto celebrati con un grande concerto all’aperto, che sarà organizzato il prossimo 6 aprile a Sarajevo, nella centralissima Ulica Marsala Tita. Davanti al palco, 11.541 sedie vuote a ricordare le vittime. Ai lati, in piedi sui marciapiedi, gli abitanti della Sarajevo d’oggi, a commemorare i moltissimi Custovic, i Cizmic, gli Jakupovic che hanno pagato con la vita l’insensatezza della guerra. L’annuncio dell’evento è stato dato dalle autorità di Sarajevo e da Haris Pasovic, famoso regista teatrale bosniaco e direttore dell’East West Center, istituzione artistica impegnata a «sottolineare l’importanza del multiculturalismo nei Balcani e nel mondo», si legge sul sito ufficiale. Pasovic ha deciso di rammentare a tutti, per immagini e suoni, ciò che è stato l’assedio, «il più grande crimine commesso contro una città dopo la Seconda guerra mondiale», ha illustrato durante la conferenza stampa di presentazione dell’evento. Le sedie vuote, che occuperanno un chilometro in lunghezza, rappresenteranno visivamente il martirio della città. Il concerto, un “poema musicale”, è intitolato “Sarajevo Red Line”, la linea rossa di Sarajevo. Rossa come le seggiole che saranno dispiegate sul viale Tito. Rosso come il sangue che «ha coperto le strade della città», ha precisato il sindaco Alija Behmen, che ha puntualizzato che è un «dovere ricordare». Un dovere, anche per l’Europa, «perché non accadano mai più tragedie del genere». Tragedia che non convinse alla fuga l’anima dell’iniziativa del 6 aprile, Haris Pasovic. In pieno conflitto, organizzò il primo festival cinematografico sarajevese, “Oltre la fine del mondo”. Produsse, con la regia di Susan Sontag, “Aspettando Godot”. Lottava contro la barbarie con le armi del sapere. «Cultura e arte sono importanti non solo per Sarajevo. Se non c’è cultura, non parliamo di società civilizzate, essa è la base dell’umanità», racconta Pasovic al telefono dalla capitale bosniaca. Sarajevo Red Line è anche un messaggio per l’Europa e per il mondo, che inerti assistettero alla mattanza, contemplando la morte in una sorta di «show tv in diretta». «Quest’anno si parla ancora della possibilità di un nuovo conflitto, specialmente in Medio Oriente. Osserviamo violenze in Africa, in Centroamerica. Desideriamo ricordare al mondo che tutto è meglio della guerra, chiediamo che alla pace sia data una chance», risponde Pasovic, citando Lennon. Ma anche di non dimenticare «il sangue che è scorso a Sarajevo. Non vogliamo che un’altra città abbia lo stesso destino», auspica. Un destino che si potrà ripercorrere nelle foto del conflitto e dell’assedio con cui sarà contemporaneamente tappezzato l’esterno del Museo Storico della Bosnia-Erzegovina, sempre a Sarajevo. «La mancanza di educazione scolastica sul periodo 1992-95 rende il museo ancora più importante, sia per mantenere la memoria, sia per formare le giovani generazioni. La mostra “Sarajevo 1992-2012”, il nostro regalo ai cittadini, rappresenta la loro lotta per sopravvivere, la dignità, il coraggio e la creatività che hanno dimostrato. Vuole conservare la memoria dell’assedio, ma anche celebrare chi ha avuto la fortuna di sopravvivere», spiega Elma Hasimbegovic, una delle curatrici della mostra. Sarajevo ricorda vivi e morti, ma s’interroga anche sul presente. «La città è stata distrutta, è cambiata completamente, 11.541 persone non sono più qui con noi. E ci mancano. Migliaia sono morti per fame o per carenza di medicine. Un’esperienza traumatica», ricorda Pasovic. Che tuttavia, con orgoglio, assicura: «Sono felice che non si sia persa la natura multiculturale di Sarajevo, la dedizione verso ogni individuo, senza badare a nazionalità, religione, razza, sesso. Il cuore di Sarajevo è ancora consacrato al rispetto di ogni singola persona».

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