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Gran Tuffo nel mare di Punta Promontore

Si conclude il viaggio a piedi dello scrittore che in sette giorni e due ore ha attraversato tutta l’Istria

3 minuti di lettura

Ma come, vi chiederete, una puntata intera per cinque miserabili chilometri? Va bene che la meta è il promontorio dei promontori, l'imbarco di tutte le rotte e il trampolino di tutti i tuffi del Mediterraneo... ma inevitabilmente vi direte: come la mena lunga questo qui. E invece no, rispondo, non è una storia esagerata, perché qui non si narra solo l'arrivo in punta d'Istria (“in ponta” si dovrebbe dire), ma un'altra cosa ancora, e cioè come a Promontore io sia finito nel letto di Rossana Rossanda, la “pasionaria” della sinistra italiana, o per essere più esatti nel letto di suo padre, e di conseguenza della sua venerabile madre.

Eravamo rimasti al battere delle dodici in cima all'ultimo campanile della penisola istriana, quando, in mezzo alla piazza infuocata di Promontore, un signore di taglia imponente in bermuda e infradito mi riconosceva («Ma lei no la xe un che scrivi?») e mi invitava a casa sua, lì a due passi, per uno spritz. Ripartiamo da qui, dall'anfitrione che mi fa accomodare in un cortiletto di quelli d'una volta, con pergola e pozzo per l'acqua piovana, tira fuori acqua gasata fresca e una bottiglia di tocai, poi declina le sue generalità: Fabio Misso, «che iera Miskovic prima del Fascio». Onoratissimo. E già la sosta-spritz diventa pranzo, branzini de scoio e salata de orto.

L'ex Miskovic è nato in Italia nel '48, a Palmanova, ma papà e mamma erano tutti e due di Promontore, «un de quà e un de là del stradon», e il legame con il luogo non si è mai spezzato. Con la casa di parte materna soprattutto, la stessa in cui ci apprestiamo a consumare il pranzo migliore del viaggio. La casa della famiglia Rossanda. «Quella di Rossana?», chiedo. Risposta affermativa. E ancora ignoro che il mio anfitrione ha già avvertito sua moglie, per farle preparare il lettone di famiglia, al primo piano della casa. «Venga a vedere» fa il Fabio, e mi porta a vedere il cimelio. Una piazza d'armi di 170 anni, dove chissà in quanti avranno vissuto nascita, amore e morte dai tempi della battaglia di Solferino.

«È ovvio che lei dorme qua», annuncia. E intanto la moglie Ivancica, bosniaca ex cantante del coro di Banja Luka, ha già preparato la tavola. Bosnia e Istria, sono sul mio. Ci si racconta le rispettive vite raminghe. Fabio che torna ogni estate alla terra d'origine a pascolare le pecore e a lumare le tedesche, Ivancica detta Margherita che cinguetta in una Jugo ancora ignara di amari destini, il Rumiz che familiarizza con i graniciari, la spesa oltreconfine e le storie di famiglia sulle “terre perdute”. Un'epopea di frontiere talmente mobili, che nella storia di ciascuno salta fuori un po' del destino dell'altro.

Gran giornata. Borin, tocai freddo, le storie che chiamano altre storie, l'Istria che si mescola alla Bosnia e alla Venezia Giulia: le pescate leggendarie con la saccaleva sulla costa ancora vergine di Promontore, la birra e il formaggio dei frati trappisti francesi venuti a Banja Luka al tempo dei Turchi, le magnifiche storie di mare degli esuli di Lussinpiccolo in casa di mia madre. «Ora è tutto finito», dice Ivancica. A Banja Luka non ci sono più né trappisti, né ebrei né musulmani. «Non sono le pietre, ma le persone che fanno una città», mormora. «Le persone non ci sono più, e la mia città non è più la stessa».

E si va avanti a racconti, fino a sera (frittata al prosciutto salato e molto altro), con anche i vicini che vengono a sentire. Così salta fuori la storia di Riccardo Muti conosciuto a Sarajevo, e del suo concerto a Trieste, l'incontro con Milosevic, Tudjman e Karadzic, sinistri comprimari della sanguinaria dissoluzione jugoslava, e poi il viaggio a vela verso Lepanto, con la traversata della punta d'Istria verso lo scoglio maledetto di Gagliola. E ancora le mangiate di calamari a Unie, e i racconti lussignani del vecchio Budinich, navigatore di mari e di numeri. Alla fine il lettone bicentenario dei Rossanda mi avviluppa in una notte di bonaccia, sudario e spazio d'atterraggio di invisibili zanzare. L'indomani via di buon'ora per il Grande Tuffo. Vado solitario sulla strada rossa in terra battuta, in mezzo a canneti così impolverati che pare abbia nevicato; vado eretto e cadenzato come un granatiere napoleonico, e mi accorgo che ho finalmente imparato a camminare (nel senso che prima non ne ero capace).

Graffi di jet nel cielo desertico, unghiate planetarie. Il monte di Ossero come un miraggio. A Est il mare è uno specchio ustorio, così cerco a Ovest, le baiette di ciottoli al riparo dal sole. Ma anche di là è deserto, la superficie è increspata di smagliature di minime correnti. Trovo, dimenticato su una roccia, un bikini fucsia di marca “La vie en rose”, che metto in cima al mio bastone ed eleggo a bandiera dell'approdo finale a questa penisola-femmina così lungamente sfiorata, contornata e desiderata. Non tornerò a piedi. In punta d'Istria viene a prelevarmi l'amico Giorgio Godina, presidente del Cai XXX Ottobre. L'appuntamento è al selvaggio “Safari bar”, imbastito tra i canneti e i lentischi da uno svizzero innamorato del vento. Ecco l'insegna di questa Tortuga, le altane in legno aggrappate ad alberi morti, l'ultimo obelisco trigonometrico della punta. Tuffo dalle rocce di Punta Promontore, Sud Perfetto. Jug. Mare immobile. Ed ecco Giorgio che arriva con la birra fresca e la frutta, felice. Sette giorni e due ore ci ho messo. Potevo impiegare meno tempo, ma faceva troppo caldo. Dopo l'una era impossibile camminare in questo settembre libico. Fatti un po' di conti, ci ho messo 42 ore, e il calcolo non significa nulla, tranne che è la misura del mio territorio. Quarantadue ore dalla porta di casa. Ne avevo immaginate molte di più. Non sapevo ancora che la lentezza accorcia lo spazio. Mentre l'autostrada è una galera che dilata all'infinito i minuti secondi.

(8 - Fine. Le puntate precedenti sono state pubblicate il 21, 22, 23, 24, 25, 26 e 27 settembre. Tutto il viaggio sul sito www.ilpiccolo.it)

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