Nella valle della Draga, il grande crepaccio che spacca l’Istria in due
Terza tappa del viaggio attraversando l’Istria da una parte all’altra come i viandanti di un tempo

Seconda notte, di cupe malinconie. Forse è colpa di Montona, col suo castello pieno di alieni che banchettano. Forse dipende dalla Luna piena e dalla inevitabile cagnara di ululati da Livade a Visinada a Piemonte. O magari è il lago di nebbia fosforica che dilaga sotto il balcone, nella valle del Quieto. Chissà. Al mattino lo specchio mi rimanda una faccia inselvatichita, già bisognosa di un “brivec”. Che ci fai qua da solo vecchio mio, mi dico. Sei matto.
Ma basta rifare il sacco, varcare le mura, scendere lo stradone, e il magone se ne va. Pergole, orticelli, tini, fichi spiaccicati sul selciato, rugiada: Montona vera sta fuori dalla sua sommità alberghiera. Per la prima volta un contadino mi chiede dove vado. Ha riconosciuto il passo tranquillo di chi va lontano. Scendo per scalette in “masegno” verso lo stradone per Pisino e mi chiedo chi è più felice di me, con quella linea che mi porta al mare per la strada più lunga. E' come andare a Santiago, anzi meglio.
Lunga salita, asfalto, ombra lunga che mi segue sulla destra. Mi volto, il “paracarro” della città murata è magnifico visto da Sud. Entro in mondo più agricolo, meridionale. Fa caldo già alle otto e mezza, ho con me una borraccia in più, non si sa mai. Montagne di zucche gialle, rosse, verdi. Bivio per Caldier, poi su fino a Marussi con traversata su Novacco. La mappa pare la guida telefonica di Trieste. Dagostini, Fiorini, Nadalini. C'è anche Lakoselci, ti pareva, patria del mio compositore preferito, Alfredo Lacosegliaz.
Ridiscendo sullo stradone per Pisino. A Scropetti mi accorgo che il “masegno” è finito e le case sono tutte in pietra bianca. La terra, di conseguenza, pare un campo da tennis, splende di un rosso africano. L'Istria per chi non lo sapesse è un pezzo d'Africa che naviga a Nordovest, esattamente come la Puglia, che le somiglia. Voglio entrare bene in mezzo in questo mondo arido, segnato da forre, grotte e quinte rocciose orizzontali. Sulla mia destra un cartello indica Livaki, sembra quasi un nome greco. Ci vado.
Comincia così, in un mondo desertico assordato dalle cicale, la traversata verso il grande “crepaccio” che spacca l'Istria in due: la valle della Draga che comincia nel mare di Leme e risale a secco fino alla foiba di Pisino. Un fiordo serpentiforme senza mare, dove il calore si imbottiglia e le vipere tengono convegno. E' il grande Rift di questo pezzo d'Europa, la terza e più profonda valle incrociata sulla mia strada dopo quella del Risano e del Quieto.
Skrapi, Livaki, Jurasi. I nomi si fanno più slavi. Chissà se gli inamovibili rappresentanti della comunità italiana in Istria sono mai passati di qui. Non dico a piedi: in auto, almeno. Livaki è ancora bella, anche se mezzo paese è crollato. Un indigeno mi dice come continuare, ma un cagnetto isterico tenta di mordermi a tradimento, da dietro. Me ne accorgo, il bastone mi aiuta a tenerlo a distanza. E' uno dei pochi vantaggi del pedone rispetto al ciclista, che invece ha i polpacci indifendibili.
Campagna inselvatichita, appena fuori la strada sterrata comincia una sterpaglia penetrabile solo col machete. Nessuna radura con nobili alberi ombrosi dove riposare. Le poche frattaglie di ombra sono abitate da mosche fastidiose. Dopo Muntrilj piego a Sudest, il terreno diventa più aperto, e su un dosso, all'improvviso, compare il Montemaggiore. Sto bene: la camminata è un macinino che tritura nebbiose malinconie e sputa sana rabbia, finché l'andatura diventa metronomo, canto interiore, metrica e poesia. Narrazione insomma.
Virgilio, perché non ci sei più. Con te questa strada sarebbe stata magnifica. Ma chissà, forse ho scelto di farla solo per ritrovarti. Sento che mi abiti dentro, ogni tanto faccio i tuoi gesti, parlo con la tua voce, rido e canto come te. E' con Virgilio che ho visto per la prima volta la Val Rosandra, quasi mezzo secolo fa. E da allora sono assetato di questo mondo roccioso che segna il passaggio dal Mediterraneo al mondo slavo.
Verso l'una e mezza un contadino in groppa a un trattore si ferma per guardarmi andare, poi mi fa segno di salire sul rimorchio. «Prendi!», mi dice. Il carro è pieno di uva appena raccolta. Prendo un grappolo piccolo e lui quasi s'arrabbia, mi incita: «...ancora, ancora!». Lo saluto con le mani piene, riparto verso Tignan mangiando i grappoli senza staccare gli acini, a pieni bocconi. Una benedizione. La malvasia istriana è una benedizione. Lo imparai da bambino, quando i miei mi dimenticarono nella cantina di zia Edda a Muggia, e io bevvi vin novo, così tanto che mamma mi ritrovò addormentato e felice tra i tini.
Tignan deserta, vento infuocato, rumore di stoviglie nelle case. L'unica konoba della piazza è chiusa. Hop fatto tre chilometri per niente. Qui trovar da dormire è difficile, ma trovar da mangiare può esserlo di più. Cerco alla cieca, c'è un bar aperto, deserto. In cucina la banconiera frigge zucchine impanate, la mia passione. Me ne dà un cartoccio di contrabbando.
Ma è la sete che comanda sulla fame. Scolo una birra grande, poi un'altra, seduto sotto una pergola. Sento il corpo che gode.
Apprendo che a un chilometro e mezzo c'è Dora, che ha delle stanze in frazione Surani. Vado, trovo la suocera, Marija, che sa un po' di italiano. La stanza c'è. Le chiedo se si può cenare da qualche parte. «Cossa volete magnar?». Quel che xe, rispondo. Kruha, sir, teran, prsut. «Ma lei la parla talian o croato?». Un poco un poco, le dico. E' una donna simpatica, con un caschetto di capelli candidi. Se vuole, aggiungo, magno a casa sua, cussì ciacolemo. «Ah, mi no posso, cô vien scuro sero portòn e vado in leto». «Ma lei piutosto dove la va?». Vado da Trst a Premantura, rispondo, con mie “noge”, con le mie gambe. «E perché?», chiede quella. Perché xe bel, rispondo senza convincerla. Il campanile di Tignan batte le tre. Sono arrivato.
25 km
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