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A piedi fino a Montona fra tedeschi settembrini sognando una birra

Seconda tappa del viaggio da Trieste a Promontore attraversando l’Istria da una parte all’altra come i viandanti di un tempo

3 minuti di lettura

Alle sei e mezza mi sveglia una fame da lupi. Niente dolorini per fortuna, la carcassa tiene. Nemmeno una vescica, anche la carrozzeria è a posto. Sono sorpreso, perché il secondo giorno è normalmente il più difficile. Oggi ho la conferma che in viaggio si guarisce; il fisico si scassa solo tra le scartoffie.

Il giorno della vigilia, sopra pensiero, sono finito col naso contro una porta a vetri che m'era parsa aperta. Ho perso quasi i sensi, poi m'è cresciuto un profilo da alce. Anche stamane ho quel rostro sotto la fronte.

Riempio le borracce di succo di mela al “market” oltre la strada. La giornata è bella. Il verde intorno è segnato di brume azzurre negli avvallamenti. La colazione slovena è linda, mitteleuropea e inaffrontabile per il mio stomaco mediterraneo: salumi, uova, fichi, succhi, thè, yogourth, pane, brioche fresca e altro ancora. Spazzolo uova e salumi, porto con me solo i fichi.

L'uomo al bar mi dà un'occhiata d'ammirazione quando gli dico che vado a “Premantura”. E' già tanto che non mi prenda per matto.

Cristo santo, sono solo. Marco e Sergio già mi mancano con le loro “ciacole”. Ma forse è meglio così, vista la strada contrabbandiera che ho scelto di fare verso le montagne per evitare lo scomodissimo posto di confine verso Pinguente, piazzato su una fottutissima strada che ignora l'esistenza dei pedoni.

Così decido di cancellare le tracce, diventare clandestino e irreperibile. Esco, per l'ultima volta mi giro indietro verso Nordovest, e tra due colline, lontani, mi appaiono l'ospedale di Cattinara e il ripetitore di Conconello. Trieste ti saluto.

Si va. Strada per Dvori, poi subito a destra, sul crinale detto “Grande Griza”, direzione chiesetta di San Quirico. Non c'è anima viva, sento solo il respiro e il battito regolare del cuore. Vento leggero, la gobba del monte offre soprattutto sulla destra un terreno aperto da deltaplani. Vedo giù in basso il posto di confine sloveno. Ancora più in basso, nel fondovalle, la frazione di Mlini, che una casa divisa in due dalla frontiera.

Dopo la chiesa con cimitero recintato il sentiero si fa contorto e pietroso. Lascio sulla destra un bunker affacciato su strapiombi, poi scendo verso Dvori, quattro case in bilico fra Croazia e Slovenia. Il sole picchia. Lontano, in mezzo al nulla, la tettoia azzurra del confine croato e, oltre, il campanile di Pinguente. Scendo ancora fino a una strada bianca, prendo a destra verso una gola che taglia la fascia rocciosa.

Trovo un cartello “Attenzione confine”, ma sembra rivolto alle sole automobili e lo ignoro. Poi una sbarra col lucchetto. Due tornanti e sono sullo stradone asfaltato; il posto di confine croato è ancora lontano, ma la Croazia incomincia subito, proprio lì all'incrocio con la strada bianca. Sono oltre, con un piccolo tuffo al cuore. Prendo la stessa strada delle automobili, i camminatori non sono contemplati.

Alla sbarra con la bandiera a scacchi ti dividono in tre categoria. Auto, camion, pullman. Resto in piedi sulla mezzeria, un po' per sfottere. Poi mi metto in coda con le auto. Controllo curioso alla carta d'identità. Fa caldo. L'unico posto in ombra è il cartellone con la scritta “Dobrodosli Croatia”, sotto c'è un'erbetta fine e posso levarmi le scarpe. Ufficio cambio, e via di nuovo. L'asfalto è semivuoto, a metà settembre l'Istria è già un posto fuori dal mondo.

Vedo passare un'auto triestina con dentro un avvocato che conosco. Lui appartiene già a un altro mondo. Io, certamente, a quello dei miserabili. Riparto col mio passo lungo, mi accorgo che questo viaggio è una bella lezione di umiltà. Cicale. In alto sulla sinistra, la massicciata della linea ferroviaria per Pola. Fa un lungo giro sopra Pinguente per tornare indietro alle pendici del Montemaggiore. Il treno, è l'unica cosa che sento amica in questa demenziale transumanza solitaria. La macchina è cosa ostile.

Scendo per il castello di Pietrapelosa. Valle verdissima, senza traffico, percorsa da torrenti di acqua pulita. Mi concedo due pediluvi tra pesciolini e gamberetti. I piedi vanno trattati bene, vivaddio, se è vero che si scrive con i piedi. Dico sul serio, la scrittura è figlia del cammino. Anche i pensieri, anche i ricordo nascono dal ritmo regolare dell'andare. Mi segue una cinciallegra, e so bene che è Virgilio, l'amico perduto, che mi fa compagnia.

Verso la strettoia alla confluenza col Quieto il vento aumenta tra i pioppi. Sotto il castello c'è una “konoba” con bungalow e birra garantita, posto ideale per chiudere la giornata. Ma i camminatori sono strani, io ho in mente il paracarro di Montona. È là nella mente, come un'ossessione. Ci sono ancora dodici chilometri almeno, è appena l'una, la cosa mi pare fattibile. Da solo, vado più veloce. In tutto farò 32 chilometri, non sono pochi. Ma il paracarro mi ordina di continuare.

Pergola con birra all'incrocio con lo stradone del Quieto. Me la devo, visto quello che deve venire, un vallone monotono che non finisce mai. Per fortuna che c'è il vento, che a Est di Porta Portòn accelera, come tra Mostar e Pocitelj nella valle della Neretva.

Il bordo dell'asfalto è infernale, passo sulla riva sinistra del fiume, segnata da un largo sentiero. Ma anche lì è una galera di monotonia. E Montona che appare, falsamente vicina, peggiora il supplizio.

Incontro un gregge con pastore macedone. Il viandante riconosce il viandante a distanza: sollevo il bastone in segno di saluto, lui ricambia e sorride. Passo sotto il ponte dell'acquedotto, ora ho Montona sopra di me. Ma arrivarci è un altro supplizio, la strada è una lunga spirale che finisce davanti alla grande porta con un selciato liscio che accieca nel controluce della sera. Una birra, subito, veliko pivo, con tanto di cameriere. Me la devo.

Trovo da dormire per puro caso, il paese è pieno di tedeschi settembrini. A Montona non si parla più italiano e nemmeno croato. Il luogo ha perso la voce. Brezza di montagna, il sole affoga nella bruma color prugna, luccichio lontano di Grisignana. Tavolo con vista, “minestra de bobici” e frittata con prosciutto istriano. E ancora birra, birra, birra. Solo alla fine un calice di “teran”, per non sembrare un tedesco.

32 km, nove ore

(2 - Segue. La prima puntata del reportage è stata pubblicata il 21 settembre)

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