Anche la proprietà di villa Tripcovich, la storica casa di famiglia di Strada del Friuli, gli era stata tolta ma la società che l’aveva acquisita gli aveva concesso di continuare ad abitarvi. Nel gennaio del 2005 anche questo gli era stato tolto. Il giorno 24 il barone aveva chiuso alle proprie spalle il portoncino di ferro e cristallo e, senza voltarsi, era salito su un taxi diretto alla nuova abitazione offertagli sulle rive da una famiglia amica.
La sera precedente aveva cenato per l’ultima volta nella villa. Nei corridoi, sulle scale, molte delle sue cose erano già chiuse nei pacchi. Il parco e la piscina erano bui, il personale premuroso e silenzioso. Prima di cena Raffaello de Banfield aveva parlato di musica, aveva definito «eccellenti gli interpreti del Ballo in maschera in programma in quei giorni al Verdi», aveva citato Claudio Abbado, Riccardo Muti ed Herbert von Karajan. Poi aveva sollevato con delicatezza da un tavolino un’immagine in cui suo padre e tanti altri ufficiali erano schierati, a beneficio del fotografo, accanto all’Imperatore Carlo che li aveva appena decorati con la croce di cavaliere dell’Ordine di Maria Teresa, la massima onorificenza al valor militare dell’Austria-Ungheria.
La musica e il padre che aveva fatto grande la Tripcovich nei mari di tutto il mondo. Questo aveva accarezzato con le parole e la mani affusolate da pianista il barone in quell’ultima sera in strada del Friuli. Un addio mesto e orgoglioso. Niente lacrime, nessuna recriminazione. Ecco, in quel momento, aveva consapevolmente iniziato a morire.