Olga Tokarczuk: "La curiosità fa superare i confini senza perdere il senso del tutto"
«Se sono debitrice di qualcosa al comunismo, è di avermi fatto leggere molto»

TRIESTE Leggere Olga Tokarczuk significa fare un’esperienza letteraria. Ogni suo libro ci fa abitare un mondo che è insieme familiare e straniante. I suoi personaggi sono vicinissimi a noi e al tempo stesso parlano da una memoria che ci precede da secoli. La struttura dei romanzi ci obbliga a un ritmo inedito, a volte sincopato, eppure tra le pagine c’è un’armonia che subito ci corrisponde. Usciamo dalla lettura cambiati. Con la sensazione che qualche pezzo in più si sia incastrato nel complesso disegno della nostra anima, come se la scrittura di Tokarczuk avesse tirato un filo invisibile legandoci meglio al mondo. Forse perché la sua scrittura lavora su due elementi profondi dell’umano, il tempo e l’immaginazione, e così facendo tiene insieme il nostro essere nel mondo, il passato in chiave di futuro. «La memoria narrativa si ferma sui dettagli che cadono fuori dalla Storia e andrebbero perduti, i dettagli ontologici» spiega l’autrice. «In questo senso lavorare sulla memoria è un rammemorare e un redimere».
I suoi libri sono costellazioni narrative…
Penso che un modo di descrivere non lineare sia la forma più autentica e realistica, più plastica per descrivere la realtà.
Nei suoi romanzi le donne hanno un carattere deciso, autonomia e sensualità. La sua è una posizione femminista?
È una posizione letteraria. Se fossi una giovane lettrice, noterei che quello che mi viene proposto dalla maggior parte dei romanzi è un mondo leggermente spostato, come fosse visto da un solo occhio. Le donne spesso vengono ritratte per il loro ruolo sociale o in relazione a un protagonista maschile. C’è qualcosa che non va in questo modo di raccontare.
Questo modello l’ha condizionata?
All’inizio mi sentivo attratta dalla letteratura, ma anche rigettata. Poi ho capito che per me la possibilità di scrivere sarebbe passata per la rivendicazione di un ruolo diverso per le donne.
Lei è cresciuta nella Polonia comunista, questo ha influenzato il suo rapporto con la scrittura?
Ai tempi del comunismo ho letto tantissimo, è stata una reazione alla mancanza di libertà, all’oppressione, al grigio che mi circondava. Se sono debitrice di qualcosa al comunismo è di avermi dato la possibilità di leggere molto.
La Polonia è in bilico tra due mondi, Russia o Europa?
I cittadini guardano all’Europa!
Ma il governo è euroscettico e di destra…
Penso che il governo abbia giocato con le paure delle persone. Molti temono di non riuscire a stare al passo con la velocità e i cambiamenti che il modo contemporaneo richiede, e la politica ha agito come una sorta di mago che ha canalizzato paure reali e cinicamente indotte. Credo accada qualcosa di simile ovunque ci siano governi populisti.
Ha ricevuto il premio Nobel assieme a Peter Handke, sente di appartenere a una tradizione comune?
No, penso che Handke appartenga a una tradizione che ruota piuttosto attorno alla lingua, alla realtà creata dalla parola. La mia invece è una tradizione immaginativa.
Nel suo libro in uscita in Italia a primavera, “I libri di Jacob”, parla della Polonia nel’700 per raccontare qualcosa di sovversivo del nostro presente. Qual è il ruolo della Storia nei suoi romanzi?
Non invento mai nulla o almeno non invento troppo. Penso che il compito della letteratura sia quello di tirare i fili tra fatti apparentemente staccati e in quello spazio tra i fatti l’immaginazione si dispiega disegnando una mappa di senso.
Nei “Vagabondi” il movimento è anima della storia. Cosa significa per lei oltrepassare i confini?
I confini per me sono un fenomeno fantasma, non esistono in realtà, almeno che non si tratti di un fiume o di una montagna. Sono solo una traccia stabilita dall’uomo per separare e controllare. Ho abitato per gran parte della mia vita proprio sul confine e quindi è un elemento che mi è vicino e mi affascina. Quando ancora esisteva il comunismo e quindi le frontiere erano segnate anche politicamente, abitando io tra repubblica ceca e polacca, mi divertivo a passeggiare avanti e indietro con i miei cani nel bosco. È la curiosità il sentimento che ci fa oltrepassare i confini.
L’essere nata sulla frontiera quanto ha contato nella sua letteratura?
Mi ha influenzato molto, ma lo hanno fatto anche le radici familiari. Appartengo a quei due milioni di polacchi che dopo la guerra sono stati trasferiti in maniera coatta dall’est, dall’Ucraina, alla bassa Slesia e si sono trovati a dover creare nuove radici. Questo, assieme ai temi della perdita della casa e la ricerca di un nuovo radicamento, ha influenzato molto il mio lavoro.
Nel suo “Nella quiete del tempo” la natura ha la meglio su Dio e sull’uomo…
Se c’è una cosa che il Covid ci ha fatto capire è quanto dipendiamo dalla natura e come ci può distruggere.
Cosa ci ha insegnato il lockdown?
Ci troviamo davanti alla necessità di modificare lo sguardo sulla natura, dobbiamo mettere in questione la nostra visione gerarchica e antropocentrica. Bisogna guardare alla realtà come a una rete orizzontale di complicate dipendenze. Oggi ragioniamo per compartimenti stagni e specializzazioni e perdiamo il senso del tutto. Non siamo più capaci di leggere il mondo che ci circonda nella sua interezza.
Questo condiziona anche il mondo dei libri?
Sono molto preoccupata dalla scomparsa nelle giovani generazioni della capacità di leggere un testo nella sua interezza, vale a dire, in tutti i suoi gradi di complessità, nella rete di significati, nei livelli di senso che compongono un testo letterario. Il rischio è di vivere sempre più poveramente le nostre vite.
Secondo lei il sapere umanistico, e in particolare la letteratura, oggi che spazio occupa?
Viviamo un’epoca di odi dove la tentazione del muro è forte. La letteratura è un esercizio costante di empatia. Leggere romanzi induce il miracolo dell’identificazione, allarga la nostra coscienza. L’esperienza della letteratura non è paragonabile a nessun altro tipo di esperienza e in società complesse come la nostra non si può vivere senza la letteratura. —
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