Con uno pseudonimo maschile Vincenza dalla parte delle donne
Nata Sperac vicino a Spalato, sposata due volte, scrisse romanzi d’appendice

TRIESTE Sul Corriere della Sera del 4 dicembre 1923, un trafiletto recava il titolo “La morte di ’Bruno Sperani’”. Oggi, quasi cent’anni dopo, la breve nota incuriosisce al più per il titolo, ove il nome dello scomparso è virgolettato, ma all’epoca ciò non suscitò particolari curiosità, perché il nome era conosciuto ai lettori, fin dai primi passi mossi dal giornale, fondato nel 1876. Quanti conoscevano quel nome sapevano anche che si trattava di una donna, una scrittrice morta due giorni prima, a 84 anni. Bice, com’era chiamata dagli intimi, Beatrice, dal soprannome che le diede la madre; per l’anagrafe Vincenza Pleti Rosić Pare Sperać, maritata Vatta e successivamente Bignami, in arte Bruno Sperani. Tale onomastica complicata è il corrispettivo di una vicenda biografica altrettanto complessa e articolata, cui numerosi decenni di oblio aggiungono ulteriori difficoltà a chi intenda approfondirne la conoscenza.
L’oblio è parzialmente smussato negli ultimi anni, ma una nuova edizione il suo romanzo “La fabbrica” (Unicopli, Milano 2014) è l’unica sua opera ripubblicata in questo nostro secolo. Invece, per limitarsi ai soli romanzi, ci sarebbe ben altro materiale da riproporre per tracciare il perimetro di una narrativa di qualità, che nel suo insieme, ma anche nei singoli suoi passaggi, rivela un vivace approfondito interesse per la psicologia dei personaggi, unito però alla rappresentazione di quanto ruota loro attorno, a una società che è a sua volta protagonista della storia che viene raccontata al lettore.
“Tre donne”, pubblicato a Milano dalla Libreria Galli di C. Chiesa e F. Guindaninel nel 1891, è tra i romanzi dei quali sarebbe bene vedere una nuova edizione, possibilmente inclusiva di note sull’autrice e di alcune considerazioni sulla sua opera. Si tratta della storia di un nucleo familiare animato dai personaggi femminili, tre giovani donne, diversamente attraenti: Maria, la protagonista, solida lavoratrice che divide il suo tempo tra campi, fabbrica – un canapificio – e cura della casa e del marito Sandro, poi Cristina, sua sorella più giovane, ribelle a padroni, al fattore e alle convenzioni sociali, che diverrà l’amante di don Giorgio, curato del paese, il quale si risolverà a spretarsi e sposarla e infine Virginia, autentica dark lady, cognata di Maria e amante di Sandro, fratello minore di suo marito Carlo. Le donne, come avviene anche in altre storie della Sperani, sono rappresentate con una raffinata analisi psicologica e si trovano a rivestire attivamente le parti assegnate loro dall’autrice, perseguendo ciascuna, nel bene o nel male, un consapevole atteggiarsi e un coerente reagire di fronte alle prove che la vita pone sul loro cammino. Altrettanto non si può affermare per i personaggi maschili, condotti verso un’inevitabile tragedia finale determinata dal loro annaspare disorientato e irresoluto, in balia degli eventi e degli impulsi, con l’eccezione di don Giorgio, che trova la forza di scegliere, con la riduzione allo stato laicale, un accettabile progetto di vita per sé e per la sua giovane compagna.
L’ambiente in cui si muovono questi personaggi e altri, ciascuno di secondo piano, ma coralmente invece protagonisti della narrazione, è quello di un minuscolo borgo agricolo della pianura lombarda, tra Milano e Pavia, sprovvisto persino di un forno per cuocere il pane. Il paese è arretrato culturalmente ed economicamente, anche se la presenza del canapificio prelude a una lenta transizione verso l’industrializzazione che nel giro di alcuni decenni trasformerà radicalmente la natura del territorio e del paesaggio. Negli anni in cui si svolge l’azione del romanzo, nell’Italia postunitaria, l’ignoranza e, tra i più, l’analfabetismo, la miseria endemica, la fame nei periodi di carestia, lo sfruttamento e la precarietà assoluta dei rapporti di lavoro espongono i contadini all’arbitrio dei padroni e dei loro delegati. Per le donne, tale sconfortante quadro di arretratezza sociale è accentuato, all’interno della famiglia, da una condizione di subordinazione e di marginalità, dalle quali tutte le tre protagoniste, con diversi mezzi e con diversi obiettivi, tendono tuttavia ad affrancarsi.
Improntato a una poetica verista, vicina a Verga e contrapposta al nascente estetismo di D’Annunzio, che in quegli stessi anni proponeva con i Romanzi della rosa un’idea diametralmente opposta della realtà sociale, il libro della Sperani, all’epoca in corrispondenza con Filippo Turati, indica la via di un affrancamento della condizione femminile che finisce per essere parte di un più globale e ancora confuso anelito di riscatto sociale. È così che “Tre donne” è delimitato nel suo percorso narrativo da un lato, nelle prime pagine, dalla scena di Maria che esce sconvolta, assieme alle sue compagne di lavoro, dal canapificio in cui è morta una ragazza per uno straziante infortunio e si conclude con il ritorno alla fabbrica, molto più tardi, quando, richiesta dalle altre operaie di intonare un canto di lode alla Vergine, dopo qualche diniego, inizia invece a cantare l’Inno dei lavoratori cui, dopo ulteriori titubanze, si associano in coro le donne e, solo alla seconda ripresa, gli uomini presenti in fabbrica, mentre il padrone, che si stava allontanando, rimase sulla strada ad ascoltare, a denti stretti.
Entrambi tali passi del romanzo sono costruiti su un rapporto dialogico tra Maria e il gruppo sociale cui appartiene, secondo una tecnica narrativa più volte ripresa nelle pagine collocate tra questi due estremi, a significare che quanto accade al singolo è in effetti incomprensibile se non inserito in un suo preciso contesto.
Il romanzo è stato pubblicato tre anni prima che nascesse il Partito socialista, cosa che consente di individuare nell’opera di questa donna che intese chiamarsi con un nome maschile un’acutezza di pensiero che affianca alle sue doti di scrittrice una non comune preveggenza e sensibilità sociale. —
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