La versione di Nico: scaglie di luce e verità tra gli amici scrittori
Naldini, i ritratti: nel solco senza confini di Pier Paolo
Paola Italia
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Quando zia Chiarina decideva di partire lasciava Casarsa e, accompagnata da un corteo di parenti, raggiungeva la piazza principale, prendeva la corriera per Trieste, e si imbarcava per la Libia. Saliva sullo scalandrone, si arrampicava con la valigia, e salpava. Sarebbe stata presso alcuni parenti che avevano un’attività alberghiera sulle coste.
Quando tornava prorompeva in esclamazioni in arabo, che impressionavano i nipoti. Finché un giorno non poté più ripartire, e in ospedale, per non impressionare i parenti con la devastazione della malattia, alzava le braccia al cielo, e invocava Allah. Devono essere stati i suoi racconti, l’attrazione dei “viaggi immaginari”, il fascino del deserto, il ghibli, i cammelli, i ragazzi stesi in “rettangoli d’ombra” a sonnecchiare, il turbamento di un mondo sospeso e di antica, prepotente bellezza, a incantare Nico Naldini, che, cinquant’anni dopo, decide di mettere piede in Africa, e si trasferisce in una casa ai margini del deserto, attratto dal fascino della natura, “lo svariare delle terre coltivate al semideserto e al deserto, le abitudini domestiche, l’abbigliamento, la straordinaria eleganza di movimento dei corpi giovanili”.
Un turbamento che lo ha sempre accomunato a Pasolini, cugino per parte di madre (Enrichetta Colussi era sorella di Susanna, madre di Pasolini), a cui lo lega la comune infanzia a Casarsa, le scorribande giovanili, le partite di calcio, le lezioni di pittura da Federico De Rocco, a San Vito al Tagliamento, che insegnava a dipingere con i materiali poveri, le terre acquistate “nelle botteghe per imbianchini, un uovo frullato come solvente, un foglio di carta da pacchi”. Gli stessi materiali che si trovano sulle tele di Pier Paolo, ora esposte nei musei di tutto il mondo, che ritraggono paesaggi e figure del suo Friuli.
Naldini, i suoi quadri, li ha lasciati in soffitta, ma per tutta la vita è stato il cantore di quella terra, quel tratto di mondo che la pittura veneta ha colto nello splendore sospeso della luce e dell’aria, e che egli ha raccontato attraverso i suoi scrittori e i poeti: Pasolini, Parise e Comisso, di cui ha scritto splendide biografie. Senza dimenticare De Pisis, Sandro Penna, Biagio Marin, sodali di quella “fedeltà a un Eros pagano” che lo ha avvinto tutta la vita e che gli ha donato, improvvise illuminazioni, scaglie di verità.
Ma Naldini non è stato solo un felice aedo di un epos d’altri: lo sguardo del poeta, l’esercizio lento dell’attenzione, la felicità del racconto, l’incanto esercitato dalla natura, friulana o africana, gli sono propri e solo raramente ne ha fatto dono ai lettori, ritenendo forse che la dimestichezza che aveva avuto con tanti poeti, protagonisti del Novecento, gli assegnasse un compito di testimonianza, uno spazio in ombra da cui potere “vigilare e comprendere, e restare libero come voleva”.
E dopo alcuni libri di poesie (il primo era stato Pier Paolo a pubblicaglielo, nel 1948, dall’Academiuta di lenga furlana...) ha cominciato a raccontare: storie autobiografiche, biografie letterarie, brevi racconti. Nel 2016 un Piccolo romanzo magrebino (Guanda). Ora, quella felicità narrativa è raccolta in un piccolo e prezioso libro di “racconti biografici e autobiografici” – dal titolo montaliano Quando il tempo s’ingorga – pubblicato a cura di Francesco Zambon, in una nuova collana diretta da Franco Zabagli (che firma lo splendido risvolto, in realtà un mini-saggio critico, da cui abbiamo tratto alcune illuminanti definizioni): “Alfabeto”, pubblicata dalla piccola casa editrice Ronzani Editore (il numero uno della collana è stato un Pinocchio da collezione, illustrato dalle figure eteree e struggenti di un Piero Francesconi in stato di grazia).
Sono ritratti e ricordi (nella prima sezione: Secondo alfabeto degli amici, che presenta deliziosi camei letterari, accompagnati da veri ritratti, di Olimpia Biasi, da Penna a Gadda, da Comisso a Contini, da Sergio Citti a Morandi), racconti brevi e brevissimi (la sezione Passioni, ancora, tutta dedicata al soggiorno in Tunisia), riflessioni su temi di attualità, minuscole Operette morali che attraverso il giudizio su persone e situazioni gettano lo sguardo del poeta sul mondo attuale (Morire, quando?, la terza sezione), e – leopardianamente – ricordi di infanzia e di adolescenza, del Friuli e della sua gente (Quadri friulani), narrati con particolare felicità creativa, quando l’aedo dimentica di dovere testimoniare, e si abbandona alla felicità del racconto. Come nello splendido
Leggere Rilke con un soldato tedesco, che trasforma la guardia ai “guerrieri addormentati”, tedeschi fatti prigionieri dai partigiani, da vigilare in attesa che fossero consegnati all’esercito alleato, in una galeotta lettura delle poesie di Rilke, nella “bella edizione Einaudi con la traduzione di Giaime Pintor”, lettura che sospende il tempo, e azzera le distanze: “Gli passai il fucile. Tienilo tu, gli dissi e lui lo prese. Quando ritornai con il libro lo teneva ancora tra le mani ma lo lasciò cadere per prendere il libro.
Tornai a sedermi vicino a lui; sentivo il suo odore, un odore di polvere e di fumo mescolato a quello di una gioventù indimenticabile. Lui mormorava i versi in tedesco, io seguivo le righe in italiano. Non ricordo come finì quel pomeriggio, in realtà non finì mai” (p. 185). Tra quei detriti, dove la memoria affiora “dall’oscura regione”, brillano scaglie luminose, come la luce dei capelli biondo-cenere di Ferruccio, il giovane che scatena il “sogno morboso” di Naldini a Trieste, in Vicolo del Castagneto, dove i fischi e i motori delle lambrette si fondono al rumore della bora, che “recita le sue più matte scorribande”, e Nico, giovane studente ospite di Biagio Marin e sua moglie Pina, Biaseto e Pinola, la mattina, davanti al caffelatte, ascolta i versi che il poeta ha composto durante la notte, silenzioso e giudicante: “Diceva che gli sgusciavo via come un’anguilla”.
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