Da Sarajevo a Trieste la ferita aperta di chi è sempre straniero
Nel libro “La sopravvissuta” (Battello stampatore) Irma Hibert, docente di spagnolo al Petrarca rievoca la fuga dalla città natale, allo scoppio della guerra nel ’91, e l’integrazione complicata
Paolo Marcolin
l’intervista
Nei quasi quattro anni che durò l’assedio di Sarajevo morirono circa 12 mila persone, i feriti furono oltre 50 mila, la maggior parte dei quali, l’85%, tra i civili. La popolazione dovette imparare a convivere con il tiro dei cecchini, le esplosioni bombardamenti, senza luce, al freddo, costretta a fare la fila per i cinque litri d’acqua giornalieri e le razioni alimentari. Come insetti catturati e messi in un vaso di vetro in attesa di essere schiacciati. L’immagine è di Irma Hibert, che quando scoppiò la guerra in Bosnia, nel 1991, aveva undici anni. Dal 1996 vive a Trieste, che ha raggiunto scappando dalla sua città natale. Si è laureata in Lingue e insegna spagnolo al liceo Petrarca. In ‘La sopravvissuta’ (Battello stampatore, 125 pagg., 14 euro), un libro scritto di getto, in un mese, ha raccontato quei terribili e lunghi giorni.
Intanto, professoressa Hibert, come mai ha atteso 25 anni?
«La spinta me l’ha data il lockdown, una situazione per certi versi simile a un assedio, da un giorno all’altro la nostra vita era cambiata, ci trovavano costretti in casa senza poter uscire. E poi ripercorrere quei fatti all’epoca sarebbe stato doloroso, ero ancora una ragazzina. Quando il tempo mette nella giusta prospettiva le cose uno comincia a guardarsi un po’ indietro, si arriva a un certo punto della vita in cui si fanno i bilanci. Così il libro è uscito quasi da solo. Io non mi considero una scrittrice, era semplicemente giunto il momento di mettere su carta il dolore».
Quando iniziò la guerra lei era una bambina, un giorno andava a scuola e quello dopo si ritrovò in cantina sotto le bombe.
«Cambiò tutto dall’oggi al domani, eppure nei mesi precedenti non si respirava l’atmosfera che qualcosa stesse per capitare. Almeno da noi. I parenti che avevamo in Croazia ci telefonavano dicendo “andate via, vedrete che scoppierà la guerra”, ma mio padre rideva: “In Bosnia non accadrà mai, con tutti i matrimoni misti, conviviamo assieme da secoli”».
Nel libro scrive che, non sapendo quanto le restava da vivere, avrebbe voluto impiegare quel tempo leggendo il maggior numero di libri. Alla paura di morire ci si abitua?
«All’inizio quando arrivavano le bombe correvamo in cantina, ma quando è diventata la quotidianità in qualche modo ci siamo assuefatti. Se deve accadere non possiamo farci niente, ci dicevamo. Eravamo diventati fatalisti. I miei genitori, un giorno che dei pezzi di granata erano entrati nella stanza di mio fratello, avevano deciso che avremmo dormito tutti assieme. Se dovevamo morire dovevamo essere insieme, non volevano che qualcuno rimanesse da solo».
Lei racconta la vita quotidiana sotto l’assedio ma non parla di politica, non attribuisce responsabilità.
«Una scelta che ho fatto un po’ perché non me ne intendo, e anche perché non volevo prendere parte. Però adesso in Bosnia la situazione è molto difficile, siamo sul filo del rasoio come nel 1991. Eppure nessuno ne parla. I miei genitori, che sono a Sarajevo, dicono che le guerre non si fanno in inverno ma in primavera, Bisognerebbe che la comunità internazionale facesse qualcosa prima che sia troppo tardi. Purtroppo le cose si ripetono come se non riuscissimo a imparare dalla storia».
Abbandonata Sarajevo si è trasferita a Trieste, dove si è trovata molto male.
«Chiedo scusa ai triestini perché dico cose che possono non piacere. Trieste è una città meravigliosa, ma è molto dura da vivere, i triestini sono un po’ chiusi. Le mie difficoltà nascevano dal fatto di non essere coi miei genitori, di non conoscere la lingua, di non avere amici. Soffrivo perché non riuscivo a integrarmi e a fare parte di una comunità, essere uguale agli altri. Qui è difficile portare il peso di essere considerato sempre l’altro, il diverso».
Da sradicata a esiliata, ha riflettuto su cosa sia l’identità?
«È qualcosa di fluido che muta con noi. Bisognerebbe non avere radici, essere umani, cittadini del mondo».
Oggi dove si sente a casa?
«A Trieste ho passato più tempo della mia vita che a Sarajevo, dovrebbe essere questa la mia nuova casa, ma è difficile sentirla così. D’altra parte quando torno a Sarajevo capisco che non è più casa mia, le persone sono cambiate, anche la lingua è una barriera. Ci sono concetti che ho difficoltà a spiegare perché certe cose le ho imparate in italiano. Qui a Trieste invece vivo ancora come se dovessi essere accettata. Ho amici, colleghi, mi sono sposata, ma sento sempre di essere guardata come una straniera. Mi trovo quasi in imbarazzo a spiegare da dove provengo. Se fossi spagnola o francese sarebbe più semplice, ma quando dico sono nata a Sarajevo molti non sanno dov’è, per altri è ‘Jugo’, un’entità che non esiste più ma che è sempre nell’aria».
Lei insegna in un liceo, ha l’impressione che anche i giovani abbiano questa percezione del diverso, dello straniero?
«No, sono nati in una società differente rispetto alla mia generazione, accettano l’altro come qualcosa di normale, per loro non rappresenta un problema, non gliene importa niente. Anche nelle classi ci sono persone di provenienza diversa che vengono accolte ben volentieri e vivono rispetto alla mia. L’aspetto negativo è che i giovani non sanno niente della storia». —
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