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Arriva Mainetti e porta aria nuova “Freaks Out” è il punto di svolta

Quarto italiano in Concorso, il regista con i suoi fenomeni dimostra che anche in Italia è possibile pensare in grande

Marco Contino
2 minuti di lettura
(ansa)



“Freaks Out” di Gabriele Mainetti, quarto film italiano in Concorso, potrà non piacere a tutti. Maestoso, colossale, citazionista fino all’ipertrofia. Ma segna comunque uno spartiacque importante per il cinema italiano. E ha ragione Claudio Santamaria, uno dei suoi protagonisti, a dire che se “Lo chiamavano Jeeg Robot” (fulminante esordio alla regia di Mainetti nel 2015) scavava le fondamenta, oggi “Freaks Out” erige una diga imponente. Al di qua un cinema tradizionale con il fiato corto e l’orizzonte asfittico; al di là Mainetti che dimostra come, pur con enormi difficoltà, dilatazione dei tempi di realizzazione (da 12 a 26 settimane), sforamenti di budget (ufficialmente il film è costato 14 milioni di euro), anche in Italia è possibile pensare in grande, squadernando il modo di fare cinema.

Tod Browning, l’autore di “Freaks” che si palesa, già dal titolo, come fonte di ispirazione, direbbe di Mainetti: «Lo accettiamo, è uno di noi». Ma lo direbbero anche Quentin Tarantino e Tim Burton, altrettanti riferimenti cinematografici molto presenti in questo nuovo universo firmato Mainetti. Che ha rischiato tutto e ha vinto con un progetto che avrebbe potuto portarlo alla deriva, ambientando durante la seconda guerra mondiale una storia di fenomeni da baraccone, costretti a fare i conti con il mondo esterno dopo che il loro circo gestito da Ismael (Giorgio Tirabassi: più padre che semplice impresario) è stato bombardato dai nazisti.

Eccoli, allora, i mostri fuori: Cencio (Pietro Castellitto), albino che parla agli insetti, Fulvio, uomo-lupo dalla incredibile forza (Santamaria che ogni giorno si è sottoposto a 4 ore di trucco), Mario (Giancarlo Martini), clown dotato di poteri magnetici e, soprattutto Matilde (Aurora Giovinazzo) che ha il dono più devastante e incontrollabile. Con le loro capacità potrebbero sovvertire i destini della guerra e, per questo, un nazista folle e preveggente, vorrebbe sfruttarli al servizio del Terzo Reich. Ma non è un film di super-eroi.

«Sono personaggi speciali ma non straordinari» conferma il regista. «Non rimbalzano con una calzamaglia da una parte all’altra dello schermo. Sono figli della nostra italianità, con i loro difetti, le idiosincrasie, le meschinità. Potrebbero essere i nipoti di Sonego o di Age & Scarpelli. Anche Enzo Ceccotti/Jeeg Robot era così. Mi interessava raccontare come questi personaggi arrivano, nel contesto drammatico del nazismo, a vestire i panni degli eroi: prima per loro stessi e poi per gli altri».

In questo senso il baricentro del film diventa il personaggio interpretato da Aurora Giovinazzo che il regista sul set chiamava “pulcino” (quando ha cominciato a girare aveva solo 15 anni: ora ne ha 19). È l’elemento femminile a dettare i tempi di un percorso di formazione e di crescita. Mainetti lo definisce «una chiamata alla società»: e in effetti ai suoi “bastardi senza gloria”, diversamente da quelli di Tarantino, non interessa cambiare la storia, ma le persone, magari non sempre consapevolmente. La pietà per il nemico (come nell’ultimo sguardo di intesa di un partigiano), il sacrificio per gli altri e, in generale, l’accettazione del diverso pulsano di vita propria ed entrano dentro lo spettacolo di un film che si apre a sequenze di battaglia mai così grandiose (girate in Calabria per oltre un mese), capaci di dialogare con una radice neorealista che Mainetti non manca di omaggiare (da “Roma città aperta” a “Sotto il sole di Roma”). Passato e presente del cinema italiano a cui “Freaks Out” (in sala dal 28 ottobre, accolto in Mostra da dieci minuti di applausi) indica anche la direzione futura: oltre la diga, c’è un orizzonte produttivo tutto da esplorare. —

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