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I documentari musicali hanno spesso il limite di essere semplicemente una carrellata dei momenti fondamentali della produzione di un artista. Non è così “Hallelujah: Leonard Cohen, un viaggio, una canzone”, perché i registi Daniel Heller e Dayna Goldfine (nella foto con Robert Kory, produttore e fiduciario della famiglia Cohen) scelgono di raccontare la vita di questo grande autore mettendo al centro quell’unica canzone capace di sintetizzare un’intera carriera. Si intrecciano tre filoni creativi: il cantautore e la sua epoca, il percorso drammatico del pezzo, le testimonianze degli artisti per i quali “Hallelujah” è stato un brano seminale. Se la prima parte è godibile per la qualità delle interviste e delle immagini di repertorio, il lavoro entra nel vivo quando viene raccontato come la Columbia Records nel 1984, rifiutò di pubblicare, l’album “Various Position”, disco nel quale era contenuta “Hallelujah”. Venne poi distribuito a fatica grazie ad una piccola casa discografica. Cohen aveva lavorato sette anni. Pare esistano 150 versioni prima del testo definitivo. Quando Bob Dylan iniziò a suonarla ad alcuni concerti l’attenzione tornò sul brano. Seguì John Cale dei Velvet Underground che nel 1991 realizzò una versione nel quale il piano diventava protagonista. Ma è nel 1994 che Jeff Buckley con la sua chitarra e la sua voce consegna il brano alla Storia. Ad oggi si contano più di 180 cover. Non male per una canzone che ha rischiato di esistere solo per il suo autore.



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