Cowboy e cinema western a Venezia scatenano “La questione dei cavalli”

Dimenticatevi la solita Venezia, quella dei canali e dei ponti, quella della nebbia, del Carnevale e della Biennale: abbandonate l'immagine da cartolina della laguna. Provate a concentrarvi invece su una produzione cinematografica che ha un progetto faraonico e al limite dell'inverosimile: girare un film western nella città dell'acqua. L'impresa ha, in particolare, qualcosa di straordinario, un intento sicuramente visionario ma di non facile realizzazione: trasportare sulle isole veneziane un gruppo di cavalli, necessari per una pellicola che parla di cowboy.
È questo il soggetto principale del folgorante romanzo di debutto di Arianna Ulian, “La questione dei cavalli” (Laurana Editore, pp. 288, euro 18), che inaugura la collana Fremen curata da Giulio Mozzi nata con l’obiettivo di proporre opere prime che siano interessanti per le storie e presentino, dal punto di vista formale, una lingua speciale.
Il romanzo di Arianna Ulian presenta già una trama di per sé abbastanza unica ma a colpire sono soprattutto lo stile dell'autrice e la forza delle sue invenzioni narrative e linguistiche. La vicenda del regista Mr. C, intenzionato a girare a Venezia il sequel del film “Il mio nome è nessuno” (interpretato nel 1973 da Terence Hill e Peter Fonda su soggetto di Sergio Leone), viene raccontata attraverso una moltitudine di voci, quelle dei collaboratori e dei tecnici, delle comparse, dei veneziani e in particolare quella di Momo, un bambino problematico che ama giocare ai pistoleri, che parla spesso da solo e “per il fatto che gli piace guardare e che memorizza i particolari riesce a descrivere e a spiegarsi meglio degli altri, e ha un allenamento alla sinonimia; se non trova la parola giusta, la inventa”. Tra gli altri personaggi ci sono Martino, Angelo e Sarah, impiegati a vario titolo nella produzione, con i quali è facile entrare in sintonia nell'epoca delle varie Film Commission.
Oltre alle spese che impone il Comune per girare e alle limitazioni burocratiche e tecniche in laguna, il vero problema è che non si riescono a far sbarcare i cavalli. Gli animali vengono confinati sull'isola di San Secondo e nel frattempo si scopre che sono stati colpiti dal virus WestNile che porta sintomi neurologici come la paralisi, le cadute improvvise, una difficoltà nell’andatura, la cecità. Le stranezze si susseguono: un'improvvisa moria di pesci, l'apparizione di un'inquietante muffa rosa e le scorribande del Mucchio Selvaggio, un gruppo di comparse, vestite da cowboy, che seminano il panico in città aggredendo chiunque sia legato alla produzione del film. La storia viene proposta al lettore attraverso le testimonianze che un giornalista animalista raccoglie tempo dopo. Venezia appare sotto una luce per certi versi inedita: quella che “non è neanche una città, se non lo sai, è un arcipelago”, un posto affatto romantico come pensano i turisti ma al limite del vivibile, “è fatica anche solo uscire di casa, ti fiacca le gambe estate inverno e sei sempre sottovento o sotto il sole o dentro l’acqua o sotto l’acqua o nella nebbia”; è come un paese: “quando si vuole capire qualcosa, si fa finta di saperla già”.
Sembra il posto giusto per ospitare Momo e i suoi amici che preferiscono giocare ai cowboy piuttosto che a carta forbice sasso. A Venezia si vede di tutto tra Biennali d'arte, festival del cinema e matrimoni indiani, che problema può esserci a portare anche dei cavalli? Ma l'impresa è destinata al fallimento in quanto i cavalli sono animali paurosi, temono ciò che è nuovo e non ci pensano proprio a salire su una chiatta perché sotto c'è l'acqua. Arianna Ulian è abile nella costruzione di un testo che è complesso, a tratti quasi postmoderno, ma non confuso: i punti di vista dei personaggi-narratori sono precisi e variegati e nella trama che si svela e si chiarisce pagina dopo pagina trovano una trascinante partitura omogenea. —
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