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Non colpite i piccioni del Politeama ci diceva il vecchio Umberto Saba

Sotto gli ippocastani di Viale XX Settembre quando il teatro Rossetti era abbandonato

Paolo Cervi Kervischer
3 minuti di lettura
Il teatro Rossetti in una foto d'epoca (Archivio Claudio Ernè) 

TRIESTE Si giocava in strada a quei tempi sotto gli ippocastani del Viale XX settembre o nel giardino pubblico di via Giulia o nella corte della casa di via Zovenzoni dove sono nato al numero 5.

Si giocava per strada nella parte mediana dell'acquedotto (nessuno lo chiamava ancora “viale” all'epoca), quella più bella e più tranquilla, che si apriva per chi vi arrivava da “cità”,con un grosso albero ombroso al centro della passeggiata all'incrocio di via Rossetti e ci si schizzava allegri da una fontanella, “ La fontanella!” posta di fronte alla rivetta del “vecio col baston”. La parte più bella dell' acquedotto finiva poco più su, subito dopo il Politeama, all'epoca abbandonato ai topi e ai gatti. Era la primavera del '57 e avevo appena compiuto sei anni. Poche le auto che giravano da quelle parti ma si sentiva al mattino il richiamo dell'ombrellaio o del robivecchi..”robe vecie da vender..”e del “gua” che veniva col suo carrettino ad affilar le lame e le forbici dalla val Resia e correvo sul pergolo,il balcone, quando sentivo ingranare la marcia della topolino C di mio padre che svoltava dalla via Giulia per infilarsi poi nell'autorimessa di Rudi sotto casa. Per lui ero io il comandante di tutte le forze: cielo mare e terra!, sorrideva a mio papà col suo labbro leporino mentre posteggiava abilmente in retromarcia l'auto nel box.

L'appartamento di sei stanze più cucina in cui sono nato si trovava al secondo piano. Un meraviglioso klavir Lauberger & Gloss troneggiava nel salotto riscaldato da una vecchia stufa di maiolica. Mia bisnonna Caterina Zanetti in Kervischer, originaria di Parenzo, morto il marito si era trasferita a Trieste. Aveva tre giovani figlie, Gisella, Caterina e mia nonna Meri e affittava le camere agli artisti che si esibivano a quei tempi al Politeama. Lì era stato concepito mio padre nel '14 da un pianista croato- ungherese Ernst Buchler invaghitosi di Meri e che poi con la scusa della guerra e della successiva disfatta dell'Austria non era più ritornato a Trieste ormai diventata Italiana e non aveva sposato la Meri. Mio padre era cresciuto perciò con tre zie e una nonna severa “vecchio stampo”. Poi, le sorelle andate spose, l'appartamento era rimasto a lui e a mia madre. Aveva fatto ricavare un bagno dal camerino in fondo ed io giocavo nella grande stanza col poggiolo che mia mamma chiamava “il cimitero dei giocattoli”. Nella corte avevamo allestito una teleferica fra la mia finestra e quella dei miei amichetti dirimpettai di via Piccolomini, Renato e Claudia. Ci trasferivamo messaggini e piccoli giocattoli mentre io, figlio unico, invidiavo quella coppietta di fratellini che comparivano e scomparivano ora da una ora dall'altra delle finestre dirimpetto. Nella corte, luogo appartato, con le ragazzine della via giocavamo alle belle statuine e al dottore ma in acquedotto, libero dalle auto, ci scatenavamo nei giochi più scalmanati. A guardie e ladri sopratutto, al rincorrersi e a “nascondin” che risultava il gioco più divertente di tutti.Il centro di quelle avventure era proprio la rivetta del Politeama. Ci si trasformava in gladiatori romani o a volte in dinoccolati cowboy mentre, attraverso uno squarcio del portone laterale dell'ingresso del teatro, quello che si affaccia sulla gradinata, (che era allora il principale perché aperto sull'atrio), ci intrufolavamo al suo interno. Nel buio rischiarato soltanto da lame di luce filtranti da sudici vetri ci acquattavamo fra le divelte poltroncine, dietro a polverosi e laceri tendaggi camminando accorti fra macerie e inciampi vari. Nessun nascondiglio sarebbe potuto apparirci più avventuroso! Aspettando di essere stanati trepidanti al cogliere il minimo rumore, condividevamo lo spazio con i numerosi gatti del quartiere che allora erano tutti per strada e venivano regolarmente rifocillati dalle solite gattare. Poi di corsa, giù dalle ripide scale tutti sudati, a dichiararsi salvi!, in tana! Uno di quei giorni spensierati e magici però avvenne che un ragazzetto, forse un po più grande di noi, arrivò con una grossa novità. Si trattava di un sottile tubo di plastica rigido nel quale infilava i “scartozzetti” di carta realizzati come quelli del venditore di castagne ma piccolissimi ed appuntiti. Ecco La Cerbottana! Soffiandoci con forza dentro si poteva scagliare la munizione a lunga distanza e colpire l' amichetto trasformato per l' occasione nel nemico. Ci si divideva in due squadre e ci si rincorreva urlando e soffiando nei tubi e raccogliendo da terra le munizioni. Chi veniva colpito era fuori. Un gioco esaltante! Una vittoria della tecnica! Era, da quel momento in poi, diventata l'unica attrazione per noi piccoli discoli. A casa preparavamo con cura le munizioni ricavandole da sottili strisce di giornale e la cosa ci impegnava per ore ed ore. Poi le nuove elaborazioni con tubetti di diversa lunghezza, con cerbottane multiple, con scartozzetti rinforzati. Ogni tanto sulla rivetta passavano perlopiù donne indaffarate con la spesa. Ma c'era un vecchietto che scendeva la mattina borbottando fra se con una pipetta in bocca e un bastone che, agitandolo, ci apostrofava con una voce stridula di non tirare ai colombi che era diventato nel frattempo il nostro divertimento preferito. Poi non lo vedemmo più. Solo molto più tardi ripensando a quei giorni ho capito che quel vecchietto era proprio Umberto Saba nei suoi ultimi giorni di vita. —

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