La moneta più preziosa dell’economia digitale? È la nostra attenzione
la recensioneQualcuno potrebbe pensare che il “prodotto” che vale di più al mondo è uno sportivo pagato milioni di euro. O il magnate che può permettersi i primi lanci del turismo spaziale,...

la recensione
Qualcuno potrebbe pensare che il “prodotto” che vale di più al mondo è uno sportivo pagato milioni di euro. O il magnate che può permettersi i primi lanci del turismo spaziale, sganciando 20 milioni di dollari per andare sulla Luna. Di fatto c’è qualcosa che vale molto di più, ed è la nostra attenzione. “Attenzione!” (Hoepli, pag. 144, euro 14,90) di Beniamino Pagliaro ci schiarisce le idee, come specifica il sottotitolo: “Capire l’economia digitale ti può cambiare la vita”. Il giornalista va subito al cuore del problema: nel labirinto di informazioni in cui viviamo, è logico che vinca chi riesce a catturare la nostra attenzione. L’attenzione ormai costa, e al mercato si compra tanto al chilo o al clic: «L’attenzione è la valuta di quest’epoca», scrive. Siamo distratti? Pigri? Passivi? Per giustificarci additiamo i colpevoli: Internet e il telefonino. Pagliaro esclude questi alibi. Se c’è una colpa, dice, è quella di una società che evolve e l’andamento è per forza collettivo, bisogna adeguarsi. Certo non era previsto. Quando nacque Facebook, per esempio, si trattava di una semplice piattaforma riservata a un ateneo e ai suoi studenti, e anche Internet era stato ideato per essere un sistema di comunicazioni militare. Tutte le grandi trasformazioni della trasmissione hanno portato a un’evoluzione, da Gutenberg a Marconi. Ma allora non eravamo “invasi”. Come fare a concentrare la nostra attenzione sull’informazione che ci interessa?
l’algoritmo
Nel labirinto digitale il primo a vincere fu Larry Page, fondatore di Google con Sergey Brin. La nostra testa ha bisogno di ordine e l’algoritmo diventa il nuovo dio. Facebook come Google non si accontentano dell’attenzione alimentata di un sistema ordinato, vanno ben più in là: i news feed (le unità di informazione) vengono personalizzati: «L’obiettivo è che ogni utente possa incontrare il contenuto che davvero gli interessa», dice Tom Alison, genio ingegneristico di Facebook. E i news feed siamo noi. Perché appunto c’è chi studia i nostri dati in rete (tanti), li incrocia, li esamina, crea insomma una serie di categorie che corrispondono a esigenze, gusti, orientamenti politici in cui ogni utente può essere inserito. Lo stesso fa Google, di cui il 99% dei 110 miliardi di dollari di ricavi annui arriva dalla pubblicità. Il fatto è che Google e Facebook sono i due giganti dell’attenzione, la nostra. E la usano per compiacerci con notizie che desideriamo o per consolarci con uno spot aderente al nostro ego. I dati sono una banca, lo sappiamo. Utili perchè ci semplificano a vita, ma dannosi se consideriamo che possono pure orientarla. E tuttavia, con buona pace dei “complottisti”, siamo noi che decidiamo di dare la nostra attenzione.
LA CARTA STAMPATA
In tutto ciò – tra i tanti effetti esaminati dall’autore – che fine fa la carta stampata? I giornali in primis, si vendono sempre meno. Tanto più in un mondo in cui tutti possono improvvisarsi giornalisti, anche se il problema è il “come”. La questione è pure la corsa alla pubblicità (ma non personalizzata), quando ormai i banner sono la cosa meno cliccata al mondo. Non è da lì di certo che ci potrà essere una rinascita dei quotidiani: «Gli editori, inoltre, non hanno ancora costruito una piattaforma in cui domanda e offerta di attenzione siano scambiate». Pagliaro sale e scende il corso della storia, ci mostra come in fondo la nuova era tecnologica, iniziata con l’iPhone, coincida con la grande crisi del 2007: non c’è una connessione tra le due cose, ma è vero che lo sviluppo del digitale pretende l’efficienza. E la crisi pure. In questo nuovo scenario economico qual è il rapporto con l’informazione? Molto malato: le fake new e altri scandali hanno contribuito alla sfiducia. Ma, ancora una volta, è l’utente a scegliere e spesso sceglie i suoi pregiudizi. È così che Trump ha vinto le sue battaglie, pompando false informazioni e populismo, ignorando la serietà dei dati oggettivi. Per esempio pensiamo che l’1% della popolazione possegga il 59% della ricchezza, mentre invece ne possiede il 23%. O pensiamo che il 23% della popolazione sia fatta da immigrati, mentre invece si tratta del 10%.
Prodotto e notizia
La crisi dei giornali non durerà in eterno, perché la velocità dei prossimi dieci anni sarà esponenziale e bisognerà scegliere. Anche i giornali amplieranno la loro piattaforma, andando incontro alle esigenze del singolo, la massa, infatti, a seguire i giganti dell’attenzione, non esiste più. Soprattutto: «Avremo ancora bisogno di professionisti in grado di scovare notizie e istruiremo software sempre più bravi ad accorgersi dei dati e a farli diventare fatti. E, se le notizie sono di tutti, la trasformazione di valore non avviene più tra fatto e notizia, ma tra notizia e prodotto: lì il giornalista potrà fare il suo mestiere». Anche nella possibilità di catturare il nostro interesse, sarà però necessario che l’utente venga informato, non invaso: se i giornali «saranno capaci di rispondere a questa domanda, non avranno problemi a farsi pagare», avranno cioè un rapporto diretto con il cliente, senza la mediazione di una piattaforma.
Il futuro è disponibile a tutto, la valuta dell’epoca resterà la nostra attenzione. Potremo scegliere di farci guidare ovunque, per poi lamentarci. Oppure ristabilire più criticamente il nostro sguardo, scegliere con convinzione cosa compriamo, mangiamo, leggiamo. Chi vogliamo essere. —
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