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Gorizia capovolta con rimpianto

Il racconto della città firmato da Roberto Covaz

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Come una donna non amata abbastanza, Gorizia vive nascostamente. Ripiegata su un cuore che fa fatica a battere e indifferente alla bellezza che potrebbe palesare. Sa cos’è stata, ma non cos’è. Quasi che, avendo un passato glorioso, creda di non dover dimostrare di avere un presente. Eppure se non mostri cosa sei, non sei.

Nel libro “Gorizia capovolta” che esce domani (Bottega Errante Edizioni, pagg. 175, euro 13,00), con amore rabbioso il giornalista e narratore Roberto Covaz scuote e capovolge Gorizia come fosse «una di quelle sfere di vetro con la neve finta» nella speranza di rivitalizzarla. È una città «indecisa se essere europea, italiana, internazionale e che intanto è diventata una delle tante periferie di Kabul ospitando centinaia di richiedenti asilo».

Roberto Covaz ha vissuto vent’anni a Gorizia, come responsabile della redazione de Il Piccolo, e l’ha osservata, studiata, raccontata. Se n’è andato con il rimpianto di non averla vista crescere, superare un passato certamente lacerante, però così cosmopolita che avrebbe potuto farla guardare lontano. Oltre quel muro che invece «ha oscurato parte del suo orizzonte».

Nonostante il Castello imponente, la simbolica stazione Transalpina, l’antichissima sinagoga, l’azzurro Isonzo, il fiorito giardino Viatori, i parchi lussureggianti e i tanti sontuosi palazzi, che scandiscono la sua storia dal 1300 in poi, «è una città in perenne ricerca di vocazione». Perché nulla di tutto questo è davvero vissuto da chi la abita. Simile a una Jolanda e un Emilio ai quali non interessa conoscere la storia della propria città, ma solo festeggiare un Natale dopo l’altro con un pranzo abbondante accompagnato da un buon vino del Collio.

Covaz non le manda a dire ai goriziani e si toglie più di un sassolino dalla scarpa. Ne ha tirati su molti di sassolini percorrendo i viali del camposanto nella disperata ricerca di capire la città attraverso i cognomi sulle lapidi, che dimostrano «come in questa terra i confini siano cose da uomini in carne e ossa». Lo scrittore scopre che Jolanda Pisani è stata una delle prime giornaliste goriziane ed Emilio Cravos un fruttivendolo sempliciotto: non hanno condiviso la vita reale bensì quella ideale di Gorizia morendo per l’italianità.

Contea vasta e potente fino al 1500, Gorizia poi è divenuta parte dell’impero asburgico ritagliandosi il ruolo di bella e mite cittadina dell’impero dove svernare. Un giorno non si è accontentata più di questa posizione subalterna e, con la nascita del regno d’Italia, parte del suo cuore ha cominciato a battere per l’identità italiana. I motivi sono molteplici e complessi, ma è l’inizio della conflittualità tra sloveni e italiani.

Gorizia per un secolo si troverà a fare i conti anche con le sue altre identità: tedesca, austriaca, ebraica. Alla fine della seconda guerra mondiale quel muro che ha diviso persino il cimitero di Merna a metà, separando le teste dai corpi dei morti, ha in verità separato le anime e i corpi dei vivi. Che si sentono tuttora un po’ di qua e un po’ di là e da nessuna parte, accorgendosi solo dopo mezzo millennio di non essere più «al centro del mondo», semmai ai margini dell’Italia. E la scritta “Tito” incombe sempre dal crinale sopra Salcano, frazione di Nova Gorica, il che non trasmette un messaggio di distensione.

Dieci anni dopo l’entrata della Slovenia in Europa - conclude Covaz - si stenta ancora a individuare i benefici della caduta del confine. Non c’è traccia della piena riappacificazione né della condivisione della memoria. Una speranza riposta nei giovani, i quali purtroppo non l’hanno ancora raccolta.

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