Vele e venti nell’Adriatico tra due guerre
Un libro curato da Claudio Ernè e Tiziana Oselladore restituisce immagini di marinai, yacht e regate

TRIESTE Poche immagini, incollate in vecchi album di famiglia o dimenticate in scatole di legno, latta o cartone. Pochissime stampe di grande formato e un numero ancora minore di negativi su lastra o pellicola.
Non è stato facile per gli autori raccogliere le testimonianze visive della vita delle imbarcazioni a vela e degli equipaggi che tra le due guerre mondiali hanno animato nell’Alto Adriatico le regate e le crociere. Ne è nato un libro dove nelle pagine stampate con grande cura e precisione si susseguono scafi affusolati di legno, immense vele di cotone, bompressi smisurati, boma che superavano lo specchio della poppa. E poi onde e vento, calme piatte, marinai, timonieri, mozzi, prodieri impegnati nella competizione o rilassati nel pozzetto.
Il volume realizzato da Claudio Ernè e Tiziana Oselladore per lo Yacht Club Adriaco - che sarà presentato, in sede, oggi, giovedì 21 dicembre, alle 18, mentre in libreria arriverà tra qualche tempo - restituiscono al lettore il profumo di un’epoca irripetibile che rischiava di perdersi nella nostalgia e nel mito: nelle pagine viene ricostruito un mondo che dalla Sacchetta si è insinuato nella storia dell’Istria, del Quarnero e della Dalmazia e che oggi può rivivere attraverso una selezione di 120 fotografie realizzate nella prima parte del ’900, quando l’andar per mare per diletto o sport era un fenomeno di elite, riservato a un numero ristretto di appassionati, dotati di notevoli disponibilità finanziarie.
Molte immagini di questa pubblicazione sono “firmate” Mario Circovich, Francesco Penco, Giuseppe Padovan, Oscarre Sanzin, Carlo Wernigg e Bruno Pancrazi che per anni fornì fotografie e testi alla rivista “la Vela”, la prima in Italia a occuparsi fin dagli Anni Venti del nascente yachting e ancora oggi presente sul mercato. Della grande maggioranza delle immagini del libro che ha per titolo “Nei venti dell’Adriatico” purtroppo non si conosce l’autore ma solo il nome di chi le ha conservate in qualche album di famiglia, o in modeste raccolte presenti in questo o quel club nautico. Il loro restauro è stato faticoso, a tratti problematico ma lo sforzo è stato premiato.
Tra le pagine, accompagnate da numerosi testi e ampie didascalie, ritornano così a navigare imbarcazioni storiche come gli Otto metri e i Sei metri stazza internazionale assieme alle antiche Star, Catboat, Jole adriatiche, Passere, Snipe, Dinghy e yacht di 30 metri e più costruiti seguendo le regole antiche e i desideri dell’armatore. Nomi come Marithea, Eolo, Toy, Ciao pais, Mare Nostro, Adriaco, Adria, Noventa, Stramba, Valchiria, Emo Tarabochia, Amrita, Eolo, Nembo, Illyria, Adonita riprendono idealmente il mare con le loro storie e i loro successi ma anche con le loro misteriose uscite di scena, segnate da naufragi, trasformazioni azzardate, speronamenti, legni marci, ferri mangiati dal mare salato, abbandoni, collisioni, affondamenti.
Purtroppo le foto non raccontano la fine delle loro vite: le immagini rappresentano gli scafi unicamente nel loro splendore perché anche le parole sui loro ultimi momenti di vita si sono disperse nella corrente. Restano voci, frammenti, articoli di giornali ingialliti che riferiscono dettagli di storie lontane, di nomi cambiati a causa di un passaggio di proprietà con l’entrata in scena di un nuovo armatore. “Porta male” dicevano i marinai commentando in banchina questi cambi d’identità e di bandiera.
A questa regola è sfuggita una goletta a palo varata nel 1931 da uno scalo del cantiere Martinolich di Lussino. Si chiama Croce del Sud, oggi continua a navigare e negli Anni Trenta fece parte della flotta dell’Adriaco. Scafo in acciaio, 210 tonnellate di dislocamento, 50 tonnellate di zavorra di piombo, tre alberi, 600 metri quadrati di vele in navigazione “normale” aumentabili a 1100; 37,50 metri di lunghezza a cui vanno aggiunti gli altri cinque metri e 70 del bompresso; sette e mezzo di larghezza, quasi cinque metri di immersione, questo yacht è diventato un mito per tutti gli appassionati di imbarcazioni d’epoca. Ha infatti mantenuto inalterato fino ad oggi il nome con cui è scesa in mare il 4 giugno 1931- lo stesso anno dell’Amerigo Vespucci - e come la nave scuola dalla Marina Militare non ha mai cambiato né piano velico, né armatore restando sempre di proprietà della famiglia Granelli - Mentasti che gestisce dagli inizi del Novecento la società delle acque minerali “San Pellegrino”. «Una nuova goletta costruita in Italia per italiani» aveva scritto più di 80 anni fa un cronista su “Vela e motore” alludendo indirettamente agli yacht che nello stesso cantiere Martinolich erano stati costruiti in quegli anni per armatori americani.
Nel 1932, al comando del capitano Gino Treleani, originario di Zara, la Croce del Sud aveva raggiunto Trieste partendo da Venezia. A bordo come ospiti vi erano Bruno e Vittorio Mussolini, due dei cinque figli “legittimi” del duce. «Hanno visitato la sede del Reale Yacht Club Adriaco - si legge sulle cronache dell’epoca - dove è iscritta la bella goletta».
Un altro capitolo del libro è dedicato alla goletta Amrita, fatta costruire a Lussino da Amedeo di Savoia Aosta, presidente onorario dello Yacht Club Adriaco, l’eroe dell’Amba Alagi, lasciato morire dagli inglesi in un campo di prigionia - perché privato di ogni cura - quando aveva solo 44 anni. Tiziana Oselladore e Claudio Ernè ne scrivono perché Amedeo d’Aosta amò il mare e Trieste. Portò in regata una “Star” e si fece costruire nel 1933 dal Cantiere Martinolich la splendida goletta. Non un’imbarcazione da regata come la Croce del Sud ma uno scafo che riprendeva le linee degli ultimi velieri da carico.
L’Amrita, 27 metri, fu varata il 4 giugno e Amedeo per quella cerimonia volò a Lussino a bordo di un idrovolante Cant 22 della Sisa - Società italiana servizi aerei fondata, nei primi Anni Venti, dai fratelli Callisto, Fausto e Alberto Cosulich. Ecco la cronaca di quella festa del mare comparsa su “Vela e Motore”: «Dopo l’arrivo a Lussino, Sua Altezza Reale e il seguito si portarono con una motolancia della Capitaneria al cantiere Martinolich accolti dal popolo plaudente e dalle maestranze esultanti. Dopo la benedizione impartita da monsignor Ottavio Caracci e il rituale giro della nave fatta dall’armatore e dal costruttore, ingegner Nicolò Martinolich, da apposito palco improvvisato, la contessa Maria Samminatelli - in nome della madrina, la Duchessa d’Aosta – spezzò la tradizionale bottiglia di spumante sul fianco dell’Amrita che subito iniziò la discesa verso il suo elemento in mare al quale poco dopo secondi diede il suo primo amplesso tuffandosi nel suo azzurro. La folla applaude freneticamente».
La fine della goletta è avvolta nel mistero. Quando il Duca d’Aosta lasciò Trieste per Adis Abeba, l’Amrita dal porticciolo del castello di Miramare fu trasferita a Capodistria. Fino all’autunno del 1943, quando i tedeschi occuparono buona parte del nostro Paese, molti anziani ricordano la sua presenza in banchina. Poi fu inghiottita nel gorgo della guerra.
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