La Leica di Butturini al fianco di Basaglia nella città dei pazzi
Al Caffè San Marco omaggio al grande reporter Mostra e riedizione del suo libro su Londra anni ’70

«Caro Peppe, scusami se ho voluto intitolare il capitolo di Trieste col nome del tuo libro. Nelle mie “storie di viaggio e fotografie” non poteva certo mancare questa esperienza, che adesso rileggo con estrema lucidità. Franco se n’è andato in quel brutto giorno d’agosto, mentre infuriavano le polemiche sulla chiusura dei manicomi. E noi siamo rimasti ammutoliti, quasi sgomenti, davanti alla gondola nera che lo accompagnava nell’ultimo viaggio». Scrive così il fotografo bresciano Gian Butturini, rivolgendosi all’amico Giuseppe Dell’Acqua, nella presentazione del capitolo “Non ho l’arma che uccide il leone”, parte del suo libro “Daiquiri, storie di viaggio e di fotografia”, che ripercorre gran parte della sua vita.
Gian Butturini è uno dei fotografi che dal ’74 al ’76 lavorò a San Giovanni, gomito a gomito con l’équipe di Franco Basaglia, per documentare le fasi più importanti della sua rivoluzione psichiatrica, che poi raccolse nel libro “Tu interni… Io libero”. Ma di rivoluzioni, di momenti e personaggi storici Butturini ne fotografò tanti, in ogni angolo del Pianeta, per più di 30 anni.
Nato come grafico e nonostante il successo in quest’ambito, l’artista bresciano abbandonò lo scintillante mondo dell’art direction, folgorato dall’obbiettivo nel 1968 a Londra: ne uscì il primo dei suoi 40 libri fotografici, “London by Gian Butturini” (1969). Un volume, stampato in sole mille copie, che al prezzo di cinquemila lire andarono subito esaurite. Ma che grazie al recente interessamento di Martin Parr, ex presidente dell’agenzia Magnum e uno dei più noti fotoreporter della sua generazione, oggi rivede la luce, pubblicato in Italia da Damiani Editore e curato dallo stesso Parr.
Scatti d’umanità
Tutto ebbe inizio a Victoria Station, di fronte a un ragazzo che barcollava con la siringa piantata in vena. Tube, pub e strade erano il palcoscenico di un’umanità frenetica, da cui Butturini estrapolò fotogrammi di quotidianità intrisi di dolore e sarcasmo, ma anche di gioia e lirismo: i due vecchi sdraiati e abbracciati sul prato, gli hippy, le giovani donne alla moda, i poveri clochard, le persone di colore spesso relegate nei posti più umili, la manifestazione pacifista, gli oratori improvvisati di Speakers Corner.
I suoi appunti fotografici on the road poi montati, polemicamente accostati, scremati e trattati con la grafica danno conto della “sua Londra”, di cui il fotografo scrisse “è vera e spoglia… non le ho chiesto di mettersi in posa”.
Parr s’innamora a tal punto della Londra di Butturini da includere alcune delle sue stampe, insieme a quattro copie del suo libro, anche nell’esposizione del 2016 alla Barbican Gallery di Londra in occasione di una mostra sui fotografi stranieri che lavorarono nel Regno Unito. E nel 2018 il libro sarà presentato anche nell’ambito del festival Photo London. «La cosa impressionante del libro di Butturini è la forte qualità sgranata dell’immagine - scrive Parr -, intessuta con la grafica di quel periodo. Questi aspetti lo collocano saldamente in un momento o, più precisamente, in un decennio. Utilizzando i suoi notevoli talenti come designer, combinò ogni genere di trucchi per costruire la sua narrazione, dalla grafica alla carta strappata, dai disegni all’ingrandimento di dettagli delle sue immagini».
Fotoreporter degli ultimi
Nella dicotomia tra etica ed estetica, tra fotografia come documento o come oggetto artistico, Butturini non si perse mai. «Per lui non c’erano dubbi - dice Annamaria Castellan, che l’accompagnò nella sua ultima avventura triestina, pochi mesi prima della sua prematura scomparsa -: l’estetica stava tutta nell’etica, nel calarsi della foto dalla parte dell’umanità. Era sempre in movimento, curioso, pronto a schierarsi dalla parte dei paria, e ad assumere il punto di vista degli esclusi dalla società. Aveva camminato, sotto il livello della povertà, tra una vasta umanità sciagurata e dolente».
Dalla repressioni inglese a Belfast del ’72 al Cile dei minatori del rame di Quinquicamata e dei pittori muralisti della Brigata Ramon Parra, dagli scontri dei giorni del Tankaso, preludio al golpe di Pinochet, fino alla guerra nell’ex Jugoslavia tra Bosnia, Serbia e Croazia, il fotografo bresciano si mantenne sempre lontano dal mordi e fuggi di tanto reportage pur significativo iconograficamente ma d’ambiguo cinismo. «Gian è stato capace di partecipare al disagio di coloro che fotografava diventando loro amico, nel caso operatore e poi fotografo - racconta Castellan -. Diceva “fotografare e raccontare le ingiustizie è un modo per combatterle”. Che poi era la stessa idea che aveva spinto Basaglia a radunare intorno a sé artisti d’ogni sorta per dare voce alla “città dei pazzi”». Una funzione che Gian Butturini assolse, mettendoci cuore ed anima, nel corso di tutta la sua vita. Dopo gli anni ’70 e l’approvazione della legge 180, il fotografo tornò a concentrarsi sul tema della salute mentale anche con la cinepresa, girando nel 1999 il mediometraggio “C’era una volta l’ospedale psichiatrico” e pubblicando un libro con lo stesso titolo. Era il giugno 2006 quando si recò a Trieste, purtroppo per l’ultima volta, per fotografare di nuovo strutture e persone di San Giovanni. Poi volò verso Cuba senza spedire agli amici dei ritratti e un’anteprima del reportage. «Dovevamo incontrarci a Brescia - conclude Castellan - invece Gian se n’è andato in uno scatto, portando con sé gli ultimi progetti a difesa dell’umanità».
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