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Dal paradiso perduto di una laguna turchese alle porte dell’inferno

Nel riuscito esordio alla regia dell’italiano Di Stefano una vicenda che coniuga natura e Cartello di Medellin

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Due film, due spiagge di paradiso da cui prendono le mosse, lembi di terra di una bellezza talmente maestosa e incontaminata da far balenare l'idea di girare pagina e cambiare vita per sempre. Ma mentre nel thriller–horror “Paradise Beach” (qui sotto) la magia del luogo nasconderà pericoli sia pure terribili ma molto concreti e presto svelati, qui nel più complesso, drammatico “Escobar”, “Paradise Lost” in originale, ci vorrà del tempo perché insidie assai più sottili riescano a venire a galla, così mimetizzate e ben celate nella magnificenza di siffatto eden ma pronte a esplodere all'improvviso nella loro più letale violenza.

Laguna color turchese, spiaggia bianca come l’avorio, onde perfette. Nick è canadese, surfista, quando va a trovare suo fratello che si è trasferito con la compagna in Colombia non riesce a crederci: è quello il paradiso terrestre, il sogno di tutti noi che si concretizza e diviene realtà. Come ciliegina sulla torta ci si mette pure un incontro da togliere il fiato: Maria, una ragazza del luogo che fulmina Nick grazie a un irresistibile mix di dolcezza e sensualità uniti al caratterino tosto. Non c'è scampo, e i due s’innamoreranno pazzamente, la storia decollerà e tutto sembrerà andare per il meglio. Almeno fino a quando Maria non presenterà Nick a suo zio: Pablo Escobar, il re del narcotraffico fin dagli anni '70 che con il suo Cartello di Medellin controllava fiumi di droga tra Stati Uniti, Messico, fino alla Spagna. E dal paradiso in cui credeva di essere approdato, per il giovane si schiuderanno lentamente le porte dell'inferno.

È un vero e proprio “caso” italiano, in particolare dal punto di vista produttivo “Escobar”: denso nei temi, incalzante nei ritmi, girato con ottima padronanza del mezzo, è il riuscito esordio alla regia di Andrea Di Stefano, attore il cui nome dirà poco se non agli addetti ai lavori. Lo ricordiamo con Bellocchio, ne “Il Principe di Homburg”, poi con Ozpetek in “Cuore Sacro”: difficile scordarselo giacere tra le braccia di Barbora Bobulova, protagonista di un'iconica quanto discussa messa in scena della Pietà michelangiolesca. Ma il sogno dell'attore romano, classe '72, era da sempre quello di raccontare storie. Un racconto di un amico poliziotto lo colpisce, un fatto efferato che rimandava al criminale «insieme più odiato e più ammirato del mondo, in misura quasi uguale», come lo definisce il neo-regista. Di Stefano inizia a fare ricerche, a studiare il personaggio. Perchè a raccontarne le “imprese” ci hanno già provato in tanti, ultimi della lista quelli di Netflix con “Narcos”, la cui seconda stagione sarà disponibile dal 2 settembre. Per non parlare di “Pablo. El Patron del Mal”, altra articolata serie tv di successo di un paio d'anni fa.

Per non ripetere un copione già scritto, né cadere nelle trappole del biopic e dei meccanismi codificati del film biografico, Di Stefano opta per andare a scandagliare la dimensione più privata del “Patron”, guardando a quel lato della personalità legata alla famiglia in modo viscerale, teneramente innamorato dei suoi bambini, indissolubilmente connesso alla consorte, sfuggendo a un approccio unidimensionale e "monolitico". Scelta vincente, con cui Di Stefano ha poi steso la sceneggiatura innestando il personaggio fittizio di Nick, a filtrare attraverso i suoi occhi stralci di episodi e fatti reali dell'esistenza del boss. Ne è uscito così un universo più sfaccettato e una gamma più ampia di toni, dove la fredda crudeltà del Patron è più suggerita che mostrata: un approccio psicologico che è piaciuto ai produttori francesi, Dimitri Rassam in testa (figlio dell'attrice Carole Bouquet), che ha scommesso su di lui facendo suo il progetto. Un respiro internazionale dato anche dagli ottimi interpreti: Benicio Del Toro dà corpo - è il caso di dirlo - a un personaggio monumentale, dio del male al tempo stesso capace di tenerezze infinite che gli fa guadagnare un posto d'onore nella già nutrita galleria di personaggi interpretati. Gli tiene testa il Josh Hutcherson di “Hunger Games”, credibile e convincente nel rendere la tragica caduta negli ingranaggi in cui viene pian piano imprigionato. Una spirale maledetta che la fotografia di Luis Sansans restituisce sempre più polverosa e sgranata, via via meno luminosa e sfavillante nel graduale allontanarsi dal sogno iniziale, sulla strada senza ritorno imboccata in questo paradiso ormai perduto.

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