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Otto ritratti di Sbisà donati dalle figlie al museo Revoltella

Le opere, insieme ad altri disegni, esposte da oggi tra i volti Anita Pittoni, Romeo Daneo, Dario De Rosa

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di MARIANNA ACCERBONI

Tra le icone del secolo breve, il Museo Revoltella espone un'opera di grande fascino, il "Palombaro" di Carlo Sbisà (1899-1964), artista che rappresentò, prima dello spartiacque del secondo conflitto mondiale, la risposta triestina e italiana all'europeo "rappel a l'ordre" (dal titolo del libro del poeta e artista Jean Cocteau). Un movimento che - capitanato in Italia da Margherita Sarfatti - esprimeva, attraverso il riordino generale delle cose, la misura classica e un pensiero creativo razionale, visualizzati attraverso una pittura realista che rifiutava le avanguardie. Tuttavia, dopo la seconda guerra mondiale, i parametri del gusto che avevano decretato il successo di Sbisà, «figlio del popolo, nato da un capitano di macchina e da un'operaia», ricorda la figlia Marina, erano stati rapidamente sostituiti da altri criteri, suggestioni e sperimentazioni.

Così lui s'inventò un nuovo linguaggio. E accanto alle splendide ceramiche create con la moglie Mirella, pittrice - modellate da lui, dipinte da lei e firmate CMS (Carlo Mirella Sbisà) - forgiò, con il consueto magistrale talento, deliziose testine in grés e terracotta patinata, invetriata o originalmente realizzata a imitazione del legno. Otto esemplari sono ora oggetto di una donazione al Museo Revoltella da parte delle figlie Paola e Marina, che, sotto il titolo di "Ritratti triestini", verrà presentata oggi alle 18 al Museo.

Le opere, realizzate tra il '46 e il '57, «ritraggono persone che appartenevano all'entourage della nostra famiglia nell'immediato dopoguerra e all'ambiente culturale di Trieste» precisa Marina e saranno esposte da oggi per una ventina di giorni al pianoterra del Museo assieme ad altri disegni di teste, prestate dalle figlie. Si tratta di altri soggetti, salvo per Dario De Rosa, pianista del Trio di Trieste, uno degli effigiati in scultura, cui Sbisà aveva dedicato anche dei ritratti a olio.

La piccola galleria di prove tridimensionali della dolcezza e del realismo con cui Sbisà sapeva interpretare le diverse personalità, propone il temperamento sicuro di Anita Pittoni, artista del tessuto ed editrice, la finezza intellettuale di Andreina Tutta Zeppi, il volto senza tempo di Ida Marin, nipote del poeta Biagio, la calma atarassica del pittore Romeo Daneo, che con Sbisà, Carà e Mascherini collaborò alla decorazione del Conte Biancamano; il prestigio del compositore e docente Giorgio Ghedini, la grazia della ballerina Sonia Marmoglia, moglie del direttore d'orchestra Giorgio Cambissa, e il tratto dello studioso Marino de Szombathely, tra i fondatori della società dei Concerti.

Al Comune le figlie hanno donato anche parte della biblioteca e dei documenti relativi alla carriera artistica dei genitori, per ognuno dei quali è stato costituito un fondo librario-archivistico «perché - spiega Marina - abbiamo pensato fosse importante consentire in futuro agli studiosi di ricostruire l'ambiente, le relazioni e la vita culturale di ambedue. Carlo e Mirella hanno fatto insieme un percorso non lunghissimo, dal '38 al '64; lei poi ha vissuto mezzo secolo in più, aveva 17 anni quando si erano conosciuti, lui quasi quaranta, quindi non si possono sovrapporre le due figure».

Ma quale era la vera personalità di Sbisà? «Apparentemente tranquillissima e facilissima, ma molto più complessa di quello che sembrava - afferma Marina - certamente molto lontana dai cliché da molti punti di vista. Era un lavoratore, come ne esistevano tra fine '800 e primo '900, uno che da bambino andava in campagna a raccogliere sanguisughe con i piedi nudi negli stagni per venderle al farmacista».

Nei ricordi delle figlie, Sbisà «era un uomo che ha avuto molto il senso di guadagnarsi la vita, che non aveva mai paura di sporcarsi le mani, per esempio il forno per le ceramiche non l'aveva comprato, se l'era costruito. Non è solo un fatto di abilità manuale, ma anche di non porre una separazione tra cultura alta e cultura materiale», precisa Marina. «Ciò ha anche un po' a che fare con questa sperimentazione di forme di produzione artistica diverse: da giovane aveva fatto incisione, disegno e pittura, poi ha imparato l'affresco, tecnica diversa dalla pittura da cavalletto, e poi gli è venuto in mente che poteva fare anche sculture in terracotta».

Singolare infine l'incontro, attraverso Mirella, con la borghesia triestina di radici ebraiche, una forte connotazione internazionale e frequentissimi contatti con Austria, Ungheria e Romania, che per altro Carlo aveva condiviso lavorando diciassettenne a Budapest. Specchio di un'epoca e di Trieste.

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