Gustafsson: «Rischiamo di perderci nel virtuale»
Lo scrittore oggi a Ronchi di Percoto per i riconoscimenti 2016

UDINE Il senso della vita, Lars Gustafsson lo ha cercato dentro le storie. Nei tanti romanzi, nelle poesie, nei testi teatrali che ha scritto. E non stupisce, adesso, vederlo sorridere appena qualcuno gli stringe la mano, gli rivolge una domanda, lo fa parlare del suo percorso di uomo, di professore di filosofia e di scrittore. Perché forse, dentro il calderone delle parole, una risposta a quel suo arrovellarsi sulla gioia e il dolore, su un universo in cui nessuno si sente mai davvero a casa, è riuscito a trovarla.
Grandi occhi azzurri, una barbetta appena accennata sul viso antico, Lars Gustafsson non ci pensa su più di tanto quando confessa: «Sono felice della mia vita». Affiancato dal figlio Ben, che lo ha accompagnato fino a Udine, ride di gusto quando gli si ricorda che, negli ultimi anni, molti vincitori del Premio Nonino hanno intascato subito dopo anche il Nobel.
«Dovremmo deciderci a riservare quel riconoscimento ai giovani. Per spronarli a costruire un futuro che non sia fatto solo di lacrime», commenta. E aggiunge: «Sono stato davvero felice quando lo ha vinto il mio amico Tomas Tranströmer. E mi dico: non può toccare sempre a noi svedesi». Considerato una delle voci forti della letteratura svedese, ma più in generale uno dei pochi, grandi, veri scrittori, Gustafsson sarà oggi al centro della festa del Premio Nonino.
Nelle distillerie di Ronchi di Percoto, dove alle 11 prenderà il via la cerimonia per l'assegnazione dei riconoscimenti del 2016, l'autore di romanzi intensi e originalissimi come "Morte di un apicultore", "Il pomeriggio di un piastrellista", "Storia con cane", "L'uomo con la bicicletta blu", riceverà il Premio internazionale «perché il suo narrare (anche in versi) è unico, sempre ironico con se stesso - ha motivato la giuria - immerso tra la fantasia e l'erudizione che diventano improvvisamente un gioco profondo nel tempo che scandisce il nostro trascorrere».
«Ho scritto più di ottanta libri - racconta Lars Gustafsson, camicia a quadri sotto una giacca da vecchio professore di filosofia, seduto in una saletta dell'Hotel Astoria di Udine -. E poterlo dire mi rende orgoglioso, soprattutto adesso che non ho più la forza di stare lì a modellare una storia dedicandole gran parte della giornata, e magari anche della notte. Il mio tempo, ormai, lo spendo soprattutto a mangiare, pagare bollette, leggere i giornali e parlare con la gente al telefono. Poi, tra le due e le cinque del pomeriggio, mi metto a pensare sul serio».
Filosofia e letteratura possono convivere? «La filosofia nei romanzi può rivelarsi una catastrofe. Pochi scrittori sono riusciti a trovare un equilibrio. Sto pensando, ad esempio, a Franz Kafka. Ma anche lui ha dovuto usare dei trucchi, che non si possono rivelare. Così, se devo citare un mio romanzo che si avvicini al pensiero filosofico potrei ricordare 'Il pomeriggio di un piastrellista'. Racconta la storia di un vecchio piastrellista alcolizzato che riceve una telefonata da un amico».
E poi? «Gli viene offerta da lui la possibilità di riparare il bagno di una villa senza pagare tas. se. Ricevono l'indirizzo, trovano la casa, elegante ma totalmente vuota. Non c'è nessuno in giro che possa dare loro delle indicazioni. Devono decidere tutto da soli. Però capiscono subito che hanno bisogno di soldi per acquistare le piastrelle, i materiali nuovi. E qui entra in gioco Schopenhauer e la sua convinzione che la vita sia completamente priva di significato. C'è un unico valore in quello che facciamo e lo dobbiamo cercare nella dissonanza».
Però Friederich Nietzsche sosteneva che noi possiamo creare il significato... «Certo, per Nietzsche dipende da noi trovare un senso a questa vita. Ma allora è giusto ricordare anche che, un po' di tempo dopo, è arrivato il signor Jean Paul Sartre e ha rovesciato ancora i termini della questione».
Lei a chi si sente più vicino? «Devo dire la verità? Non lo so cosa sono. Non sono un esistenzialista, eppure sto tentando da tempo di scrivere un romanzo che possa contenere in sé le idee di quella corrente filosofica».
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Nei suoi romanzi, il senso profondo dell'esistenza è il vivere stesso? «Credo proprio di sì. Il raccontare la vita, il dare senso alle parole, può essere una via per trovare quel significato. Che sarà, sempre e comunque, provvisorio».
Prima ha citato Kafka: "L'uomo sulla bicicletta blu" è un po' un omaggio al grande praghese, oltre che a suo padre? «È il mio modo di raccontare una storia pensando a quello che ha scritto Kafka, al suo 'Castello'. Diciamo che ho lavorato a questo mio romanzo come se fossi Alice che guarda il mondo attraverso lo specchio. Quando uno scrittore ha raggiunto gli ottant'anni e ha provato tante cose nella sua vita, si entra nella fase in cui si pensa di poter fare tutto. Meno che diventare ricchi, perché ormai non ha più alcuna importanza».
E allora bisogna trovare sempre nuove vie? «Prima di tutto è importante non ripetersi. Per questo ho voluto scrivere 'L'uomo sulla bicicletta blu', per lasciarmi andare alla gioia di sperimentare. Fin da ragazzo ho sempre provato il terrore di annoiare e di annoiarmi».
Così non si è negato nulla. «Ho scritto testi per il teatro, poesie, romanzi. Mi sono spinto perfino nei territori del mistero, anche se non posso definire certi miei libri come 'Il decano' veri gialli. Sono sempre storie sul vivere, fatte a modo mio».
Oggi il mondo è un gran frullatore di storie. «Stiamo vivendo un momento di grande cambiamento. Epocale, ne sono profondamente convinto. Se leggete i giornali sembra che ogni volta che una squadra di calcio perde stia per succedere qualcosa di apocalittico. A parte gli scherzi, stiamo vivendo questa enorme migrazione di masse umane. E non sappiamo cosa fare, dove metterli. Diventa difficile perfino lasciare che provino a dormire sui marciapiedi. Come fanno da sempre i clochard. Perché tra poco non ci sarà più posto nemmeno lì. E poi fa freddo, siamo a gennaio, come si fa a non accorgersene?».
E allora è giusto rimandarli indietro, come vuole fare la Svezia? «Non lo so se sia giusto. Credo che sia facile criticare la Svezia, ma quali alternative serie ci sono? Noi abbiamo i nostri canoni europei. Siamo figli di un mondo che risponde a tradizioni letterarie altissime: Dante, Petrarca, la grande cultura italiana, Flaubert e tutto il resto. Sono d'accordo con Harold Bloom quando dice che dobbiamo aggrapparci a questi canoni».
Ci salverà la cultura? «Non so se ci salverà. Certo è che la letteratura, la poesia, sono quelle che ci permettono di intercettare, di rappresentare la realtà. E quindi anche di analizzarla, capirla. Per questo non dobbiamo rinunciare ai nostri canoni, a quel bagaglio enorme di cultura che l'Europa ha espresso».
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Nel nostro canone ci sono già storie così drammatiche? «Nelle opere dei grandi scrittori antichi c'era già tutto. Euripide, per esempio, parlava del problema dei rifugiati. Di chi è nudo davanti alla vita. Non ha più né attrezzi né armi. E oggi ci chiediamo ancora come sia possibile riuscire a gestire questioni così drammatiche. Senza diventare cinici, ma al tempo stesso senza lasciarsi distruggere da questa esperienza».
E come si fa? «La letteratura insegna diverse strade. Una è quella dell'ironia, ma non è l'unica. Il problema vero è che uno scrittore, spesso, non trova le risposte alle domande. Ricordo ancora con terrore quando insegnavo all'Università di Austin, in Texas. E gli studenti mi assillavano con raffiche di quesiti, che a volte mi richiedevano uno sforzo immenso per dare loro qualcosa che avesse un senso».
Insegnare: è stato bello? «È stata un'esperienza importante. Accompagnata sempre da due grandi paure: quella di scrivere Nietzsche sbagliando alla lavagna qualche lettera e, soprattutto, quella di spacciarmi per filosofo, ma non avere poi le risposte».
È arrivato alla filosofia come Spinoza, sognando di costruire un cannocchiale? «Spinoza molava le lenti per permettere ai miopi di vedere bene. Io, quando vivevo in un sobborgo di Västerås, la città dove sono nato in Svezia, sognavo insieme a un gruppo di amici di costruire dei piccoli telescopi per vedere meglio la Luna. E studiavamo le gradazioni di incremento della visibilità calcolando i gradi di rifrazione. Non so se è stata quella la strada maestra per arrivare alla filosofia. Vero è, invece, che uno dei miei amici è diventato professore di Fisica teorica».
Lei ha approfondito la Filosofia del linguaggio... «Ho studiato con un grande professore come Gilbert Ryle. Penso che lo studio del linguaggio mi abbia spinto a cercare sempre il significato del significato».
Ha cercato se stesso raccontando i suoi personaggi? «Ho fatto di più. In un ciclo di cinque romanzi, raccolti sotto il titolo 'Crepe nel muro', ho fatto nascere i miei personaggi come me il 17 maggio del 1936. E li ho chiamati Lars. Perché volevo creare delle vite alternative. Tutti quegli uomini di fantasia hanno avuto la mia infanzia e la mia gioventù, poi però hanno seguito strade diverse. Così ho potuto immaginare come sarebbe andata se...».
Il suo Arenander, per capire la propria vita, deve prima raccontarla... «Ho scritto quel romanzo in un momento di passaggio. Riuscendo a vincere il blocco dello scrittore. Forse per questo lui, raccontando, capisce meglio se stesso. Perché io stesso dovevo provare a indovinare qual'era la strada giusta da seguire».
L'homo faber, dopo aver costruito tanto, oggi sa soltanto distruggere? «No, credo che possa ancora costruire tanto. Pensiamo soltanto ai molteplici progressi della scienza e della ricerca. Il cambiamento epocale del nostro presente passa per il cyberspazio. Oggi ognuno può improvvisarsi giornalista, scrittore, perfino editore. Possiamo gestire i nostri affari in America stando tranquillamente in Italia. Dobbiamo fare attenzione, però, a non perderci in questi corridoi strapieni di computer».
Il Premio Nonino, spesso, porta dritti al Nobel. «È successo con Tomas Tranströmer. Siamo stati molto amici, facevamo musica assieme. Peccato solo che il Nobel sia arrivato tardi, quando lui non riusciva più a parlare a causa di un ictus. Per gran parte della sua vita ha lottato con i problemi economici che lo assillavano. Quando ha ricevuto in Germania il Premio Petrarca, è riuscito a riparare la sua macchina. E i soldi arrivati dal riconoscimento dell'Accademia svedese hanno aiutato molto la famiglia».
I premi sono importanti per uno scrittore... «Soprattutto perché ti fanno capire se hai fatto bene il tuo lavoro. E poi, perché fanno conoscere certi libri anche a chi, forse, non li leggerebbe mai».
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