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Il prete deputato Š›ek lottava per gli sloveni ma finì sospeso a divinis

di Alessandro Mezzena Lona Il suo nome, a Trieste, lo ricordano in pochi. Ed è strano, perchè Virgil Š›ek porta marchiato a fuoco nella propria storia il destino tormentato di questo lembo d’Europa....

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di Alessandro Mezzena Lona

Il suo nome, a Trieste, lo ricordano in pochi. Ed è strano, perchè Virgil Š›ek porta marchiato a fuoco nella propria storia il destino tormentato di questo lembo d’Europa. E, in più, riassume le contraddizioni, le contrapposizioni, vissute dal popolo sloveno della Venezia Giulia. Discriminato dall’Italia fin dal crollo dell’Impero austro-ungarico. Perseguitato ancor prima che Benito Mussolini prendesse ufficialmente il potere. E poi dilaniato dal dubbio se fosse più giusto allearsi con i “falchi”, cioè i partigiani “rossi”, stigmatizzando la posizione ambigua della Chiesa. O se fosse meglio seguire un’altra strada, quella battuta dalle “colombe”, dai cattolici e dai liberali. Di chi voleva opporsi alla violenza dei nazisti e dei fascisti senza buttarsi tra le braccia dei comunisti. Che avrebbero usato metodi repressivi assai duri per liberarsi degli avversari.

A recuperarlo dall’oblio, adesso, è un giornalista, scrittore e ricercatore di lungo corso: Guido Botteri. Dopo un approfondito lavoro d’archivio, infatti, è riuscito a mettere di nuovo a fuoco la figura di Virgil Š›ek in un saggio puntuale e prezioso pubblicato nel nuovo numero dell’Archeografo triestino, edito dalla Società di Minerva. Verrà presentato domani, alle 16, nel corso della tradizionale serata minervale degli auguri.

Ma chi era questo Virgil Š›ek? Nato nel rione di Roiano a Trieste il primo gennaio del 1889, figlio di un macchinista delle ferrovie austriache e di una contadina del Carso, consacrato sacerdote nella cattedrale di San Giusto, dopo avere svolto gli studi a Gorizia, lo ritroviamo seduto tra i banchi del Parlamento italiano nel giugno del 1921. E il bello è che lui stesso dichiara di essere lì come rappresentante del suo popolo, «gli slavi diventati cittadini italiani», su sollecitazione del vescovo triestino. Ovvero, l’ex responsabiole dei cappellani militari dell’esercito italiano, monsignor Angelo Bartolomasi.

A Roma, Š›ek è arrivato in un momento difficile. A partire dal 1920, a Trieste, l’Italia ha iniziato a usare il pugno di ferro contro gli sloveni. Decidendo di abolire alcune scuole. E chiudendo gli occhi davanti al clamoroso assalto al Narodni Dom. L’Hotel Balkan, costruito su disegno del grande architetto Max Fabiani, che ospitava il centro di cultura sloveno e che venne dato alle fiamme il 13 luglio del 1920 da un manipolo di fascisti guidati dall’avvocato toscano Francesco Giunta. In quello che lo storico Renzo De Felice definiva «il vero battesimo dello squadrismo organizzato».

Lo scrittore Boris Pahor ha raccontato, nella sua splendida raccolta di racconti “Il rogo nel porto”, quanto il veder ballare i fascisti come diavoli impazziti attorno alle fiamme del Narodni dom, sotto gli occhi impassibili delle forze dell’ordine, abbia lasciato dentro di lui, fin da bambino, una ferita indelebile. Lo stesso dolore provato dagli sloveni di Trieste e da Virgil Š›ek, che decise di prendere la parola alla Camera dei Deputati del Regno, il 23 giugno del 1921, per spiegare al governo guidato da Giovanni Giolitti quanto poco l’Italia stesse svolgendo «un’opera continua, amorevole, civile di pacificazione e di solidarietà umana». Portava a sostegno delle proprie tesi il dolore espresso dallo stesso vescovo “soldato” Bartolomasi, che non poteva non «protestare sdegnoso contro i tristi fatti di violenza che si sono compiuti in odio contro le persone e contro le cose sacre».

In quegli anni sembrava ancora possibile trovare un punto di equilibrio tra italiani e sloveni. Condannando, magari, l’episodio del Balkan come un momento di follia nazionalista. Ma di lì a poco, al contrario, le cose sarebbero precipitate. Tanto che nel testo del Concordato, firmato dal Vaticano e dal governo di Benito Mussolini, non verrà fatto accenno alcuno alla tutela delle minoranze linguistiche in Italia. Ed è lì che il sacerdote-deputato, avvicinandosi al movimento dei cristiano-sociali, e prendendo le distanze sempre più dall’ala prudente e moderata dei cattolici del Friuli Venezia Giulia, emetterà un giudizio durissimo nei confronti di Pio XI. Dopo l’allontanamento da Gorizia del principe vescovo Francesco Borgia Sedej, definirà senza mezzi termini Papa Ratti «un nemico del popolo sloveno».

La Chiesa che Virgil Š›ek sognava era molto lontana da quella prona davanti al fascismo, ligia a una politica nazionalista sfrenata. Non a caso, il prete deputato si sentiva in sintonia con un artista molto vicino agli “ultimi”, figlio di contadini lui stesso: Tone Kralj. Tanto da invitarlo ad affrescare prima la chiesa di Avber dedicata a San Nicola, poi quella di San Martino a Corgnale-Lokev. Dove l’artista dipinse una splendida “Parabola del Buon seminatore” con Gabriele D’Annunzio ritratto nei panni del seminatore di zizzania. E un “Giudizio universale” dove Benito Mussolini tenta di contrattare per se stesso una sentenza favorevole, mercanteggiando con una borsa piena d’oro.

Ma c’era di più. Il sacerdote dipinto di schiena, che si allontana dai paesi in fiamme, raffigurava nelle intenzioni dello stesso Kralj un personaggio assai influente per la Chiesa triestina di lingua italiana. Era Antonio Santin, il sacerdote nato a Rovigno, il vescovo di Trieste e Capodistria nominato dopo la cacciata di Luigi Fogàr, che aveva sempre dimostrato grande attenzione nei confronti degli sloveni.

Normale che il prete-deputato entrasse in rotta di collisione con Santin. Sospettato di avere appoggiato i promotori di una raccolta di firme che chiedeva la rimozione del vescovo istriano, inviso alla Chiesa triestina per la sua sintonia con i partigiani comunisti e per essere uscito alla scoperto con dichiarazioni filo-jugoslave, come ricorda lo scrittore Alojz Rebula, Virgil Š›ek finì per essere emarginato e poi sospeso a divinis il 29 luglio del 1946. Non in base a motivazioni che avrebbero potuto suonare troppo politiche. Bensì per un atto di insurbodinazione nei confronti dell’autorità ecclesiastica. «A noi consta - così recita la notifica vescovile di sospensione a divinis, scritta in latino - che hai voluto impedire la partecipazione del clero al convegno convocato da S.E. il vescovo del clero per il giorno 2 luglio nella città di Trieste e con questo tuo modo d’agire hai dato scandalo agli altri sacerdoti».

A nulla servirà sapere che Š›ek aveva rischiato la vita per aver deplorato la deportazione e l’uccisione di alcuni parrocchiani accusati di collaborazione con i nazisti, in realtà sterminati per faide familiari. Nemmeno le false accuse e le minacce di morte emesse dai partigiani contro di lui, per quelle sue prese di posizione, fecero cambiare idea alla Chiesa triestina.

Morirà il 6 luglio del 1948, dopo un’operazione chirurgica a Lubiana. «Umiliato e trascurato proprio perché sacerdote», scrive Rebula. Da parte del vescovo Santin solo un laconico: «Parce sepulti. Che Dio gli usi misericordia».

alemezlo

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