A Osimo l’Italia provò a traghettare Tito nel cuore dell’Europa
Quarant’anni fa la firma del Trattato che sancì la definitiva rinuncia di Roma alla zona B

di ROBERTO SPAZZALI
Sono passati quarant'anni dal Trattato di Osimo e lo scalpore di allora, visto retrospettivamente, era il segno di un tempo giudicato, altrove, già remoto. Firmato da Mariano Rumor e Miloš Mini„, rispettivamente ministero degli Esteri e vice presidente del consiglio dei ministri jugoslavo, a Villa Monte San Pietro già del conte Giulio Leopardi Dittajuti, doveva mettere la parola fine a quasi mezzo secolo di controversie italo-jugoslave. Fu scelto un luogo appartato, per quello che doveva essere un accordo di collaborazione e invece segnò un'altra tappa della storia di Trieste, per certi versi rivoluzionaria e che non fu capita. Strano e perverso il rapporto tra la città e la sua storia: ci fu chi perfino organizzò dei viaggi turistici per visitare il luogo del misfatto.
E per ricordare «l’infausta ricorrenza», oggi alle 15.30 l’Anvgd e l’Associazione delle comunità istriane organizza una cerimonia davanti al monumento agli esuli istriani, fiumani e dalmati di piazza Libertà a Trieste.
Non si trattava soltanto di chiudere i contenziosi del ’900 nell'Europa sud-orientale ma di applicare quanto era stato stabilito alla Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa di Helsinki nel luglio-agosto 1975: in dieci punti si stabilivano le nuove regole delle relazioni internazionali tra i due blocchi ideologici. Se da un canto l'Urss era convinta di avere portato a casa il riconoscimento delle acquisizioni territoriali della Seconda guerra mondiale, dall'altra si ponevano le premesse per quanto sarebbe accaduto solo quindici anni più tardi. E così, a fronte del principio dell'inviolabilità della frontiere, il rispetto della sovranità e dell'integrità territoriale degli Stati, si contrapponeva la legittimazione dell'autodeterminazione dei popoli e il divieto del ricorso all'uso della forza per la risoluzione delle controversie.
Tuttavia, l'atto finale ammetteva la possibilità di mutare i confini mentre gli Stati Uniti ed alcuni Paesi della Nato non riconoscevano legittima appartenenza degli Stati baltici al consesso dell'Unione Sovietica. Erano, però, gli Usa usciti con le ossa rotte prima dallo scandalo Watergate e poi dalla sconfitta in Vietnam.
Probabilmente all'Italia politica di allora tutto ciò interessava assai poco. Quello che contava era ricavare un ruolo nelle relazioni mediterranee, come Aldo Moro aveva avviato negli anni alla guida della Farnesina, discostandosi dalla linea degli interessi statunitensi per quell'area. Si ipotizzava una Jugoslavia più mediterranea che balcanica, quindi vicina all'Italia, ma senza un effetto pratico se non quello della sovrastante concorrenza del porto di Fiume a quello di Trieste. Proprio Moro commentò quel trattato come una "dolorosa rinuncia" dalla quale, però, si sperava di ottenere una contropartita. Che non giunse.
E pure l'Italia non se la passava bene, presa nel gorgo del terrorismo politico e dell'eversione, in forte recessione produttiva con un'inflazione al 12 per cento, con governi brevi e incapaci di avviare le riforme. E con il tentativo di Moro di consolidare il sistema parlamentare con un'apertura al Partito comunista di Berlinguer.
Tito aveva bisogno di rinforzare la sua immagine interna alla Jugoslavia dopo la repressione della primavera intellettuale del 1972, e al tempo stesso consolidare la fiducia internazionale dopo il fermo atteggiamento politico contro l'aggressione sovietica alla Cecoslovacchia. Così, invece, condannò il suo Paese alla dissoluzione politica, dopo aver estinto una classe dirigente in grado di garantire la sua successione. In più, c'era una diffusa simpatia negli ambienti della sinistra eterodossa italiana verso una Jugoslavia socialista che si stava avvicinando ai modelli di sviluppo occidentali, senza tradire la sua matrice politica.
Insomma, davanti a una nuova aggressività sovietica e una debolezza americana, la Jugoslavia andava sostenuta e progressivamente avvicinata alla Comunità economica europea, come d'altronde era stato fatto con la Romania di Ceausescu. Le analisi della Nato, in caso di guerra terrestre con il Patto di Varsavia, valutava principalmente la capacità di resistenza jugoslava davanti a un'invasione sovietica dai confini ungheresi. Sistemare le relazioni tra Italia e Jugoslavia era un passaggio fondamentale all'interno di un più complesso disegno strategico i cui termini non erano compiutamente definiti, in quanto al governo di Bonn interessava soprattutto la riunificazione della Germania. Al contrario, la questione del confine nella Venezia Giulia risultava piuttosto un aspetto secondario che poteva essere risolto tra italiani e jugoslavi, magari con qualche vantaggio compensativo sul piano economico. Poca cosa in fin dei conti.
A Trieste, l'intera faccenda venne interpretata in termini completamente rovesciati, perché il problema, vero e presunto che fosse, era proprio il confine e con esso la questione "risolta" nell'ottobre 1954 con il passaggio dell'amministrazione della zona A del Territorio libero di Trieste al governo italiano. Allora si disse pubblicamente che l'Italia non avrebbe rinunziato alla zona B, ma di fatto era andata proprio così. Non da allora, ma già dal 1952 con il primo memorandum di Londra quando negli organi amministrativi della zona anglo-americana fu inserito un numero notevole di alti funzionari statali italiani, così da condizionarne l'operato.
Le trattative furono condotte segretamente, dopo blande smentite da parte del governo italiano. Anzi, furono escluse, per la prima volta, dalle fasi decisive le relative rappresentanze diplomatiche dopo le interruzioni negli anni precedenti, ed affidate ad Eugenio Carbone, direttore generale del Ministero dell'industria, che si scoprirà essere stato iscritto alla P2 e successivamente socio della Camera del commercio italo-slovena, mentre da parte jugoslava, lavorò agli accordi lo sloveno Boris Šnuderl, presidente del Comitato federale per i rapporti economici. Costui conosceva veramente tutto, mentre l'interlocutore italiano doveva appena informarsi. Era di fatto un canale segreto e tecnico che avrebbe dovuto scrivere in breve tempo il testo del trattato, comprendendo la soluzione alle controversie territoriali con la correzione confinaria sul monte Sabotino, la spartizione del Territorio libero, la questione degli indennizzi dei beni italiani nella zona B, e quella di un accordo di collaborazione economica transfrontaliera con la realizzazione di una zona franca industriale sul Carso.
La notizia di un prossimo trattato era trapelata già nel mese di settembre 1975 e il governo italiano aveva risposto a una interpellanza missina affermando che di fatto era riconosciuta la sovranità jugoslava sulla zona B. La reazione fu contenuta agli ambienti della destra, con grave disappunto tra gli esuli istriani, finora convinti da trent'anni di politica democristiana che aveva alimentato opposte illusioni. La questione però assunse altro tono quando l'allora direttore de "Il Piccolo", Chino Alessi, prese posizione contro l'atteggiamento di tutti i governi italiani che in pochi decenni aveva spogliato la città delle sue industrie, e ora informava la città a cose fatte. Nel mirino del giornalista c’era soprattutto la Democrazia cristiana, ma anche il Partito socialista e quello repubblicano, ritenuti perlomeno complici a livello nazionale.
Dato per fatto che la dolorosa rinuncia si doveva accettare, i veri problemi arrivarono subito appresso quando qualcuno si accorse dell'allegato economico e della progettata zona franca industriale transfrontaliera. Era stata pensata come una compensazione alla crisi produttiva triestina senza pensare che la proposta di un insediamento industriale alle spalle di Trieste non sarebbe stata accolto con estremo favore. E sorsero i primi timori, seguiti da vera e propria contestazione a un insediamento visto come ricettacolo di futura emigrazione balcanica, come fonte di inquinamento della landa carsica, quale "cavallo di Troia" a future pretese jugoslave su Trieste, palliativo inutile alla crisi senza fine del porto e alla morte della cantieristica.
Mentre il Trattato prendeva la sua strada con la successiva ratifica da parte del parlamento italiano (14 marzo 1977) ed entrata in vigore il successivo 11 ottobre, a Trieste ribolliva la protesta confluita poi nella proposta di iniziativa popolare per l'istituzione di una zona franca integrale - argomento frequentemente evocato - su tutta la provincia di Trieste, anche in nome dell'autonomismo politico, dell'ecologismo e del liberalismo sociale. Sarà quella raccolta, promossa dal Comitato dai dieci lanciato da Aurelia Gruber Benco e Letizia Fonda Savio, figlie di due grandi intellettuali triestini, Silvio Benco e Italo Svevo, che scardinerà il sistema partitico locale, anticipando di vent'anni fenomeni analoghi ma di origine e motivazione diverse.
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