LAS VEGAS - Il professor Bart Knols è un entomologo. Qui a Las Vegas, dove è arrivato dalle Maldive, è alla ricerca di qualcuno che gli sviluppi un algoritmo. “Nell’arcipelago le processionarie sono un problema molto serio: fanno chiudere le scuole per giorni, la gente finisce in ospedale. La mia azienda usa i droni agricoli per le disinfestazioni mirate dall’alto. Ora vogliamo automatizzare il processo con l’intelligenza artificiale, per capire quali alberi spruzzare e quanto, analizzando le immagini registrate dal drone”.

Droni contro la malaria
Incontriamo Knols a margine della sua presentazione alla conferenza AirWorks, due giorni di incontri, keynote e networking tra esperti di settore, organizzata da DJI nella città del Nevada per mostrare le ultime innovazioni nei droni commerciali. Knols, che alle Maldive ha fondato la startup Culex, è però principalmente un esperto di zanzare e un malariologo, con una lunga esperienza nella lotta alla malaria in Africa. Ha utilizzato i droni con successo anche a Zanzibar, per uccidere le larve di anofele nelle risaie. I risultati dell’esperimento, riassunti in uno studio pubblicato da poco, hanno superato le aspettative.
“L’OMS ha sempre sostenuto che irrorare a tappeto contro la malaria non è una strategia adottabile, perché richiederebbe uno sforzo umano e un dispiego di risorse eccessivo”, ha spiegato Knols. “Questo studio dimostra che invece si può fare: basta usare i droni”.

Il velivolo adoperato da Knols alle Maldive e a Zanzibar è l’Agras T30, un drone per l’irrorazione commercializzato da DJI Agriculture. Nata nel 2012, la controllata di DJI per il settore primario oggi è presente in oltre cento Paesi, ha venduto più di 200.000 droni e ha un fatturato annuo di circa mezzo miliardo di dollari. A Las Vegas ha presentato un nuovo modello pieghevole, l’Agras T40. È il più grosso drone commerciale al mondo: ha un serbatoio da 40 litri e può sollevare fino a 50 Kg. Si affianca ai droni della serie Mavic 3 Enterprise e a quelli della serie M di DJI, quadricotteri professionali che assieme ai software di monitoraggio e mappatura aerea 2D e 3D di DJI compongono la gamma del produttore cinese destinati agli usi commerciali.

Le applicazioni commerciali dei droni
Cinema e fotografia a parte, che rimangono l’applicazione principale, i droni giocano oggi un ruolo fondamentale in molti settori produttivi. Sono impiegati per le ispezioni tecniche degli impianti industriali o delle grandi infrastrutture, come ponti e viadotti. Aiutano nella manutenzione delle raffinerie, delle piattaforme e dei siti di estrazione. Gli installatori di impianti fotovoltaici li usano per mappare l’esposizione dei tetti delle case, topografi e geologi li impiegano per mappare il territorio.

Sono da tempo alleati importanti anche per vigili del fuoco e forze dell’ordine, che li utilizzano per il primo soccorso, a supporto del personale negli interventi e nelle operazioni di ricerca, o per la gestione degli incidenti. In tempi normali, la conferenza AirWorks sarebbe stata territorio di ingegneri ed esperti di quadricotteri, ma stavolta DJI ha voluto puntare i riflettori proprio sui soccorsi e la sicurezza.
Le accuse del governo Usa
L’intenzione, come nel caso del professor Knols, è quella di mostrare storie di chi usa i droni non per applicazioni professionali tout-court, ma anche e soprattutto per salvare vite. È una strategia di marketing collaudata, ma che negli ultimi tempi si è scontrata con le accuse degli Stati Uniti: dal dicembre 2021 DJI è nella blacklist delle società estere con cui le aziende americane non possono fare affari, e pochi giorni fa è finita in una lista di nomi che, secondo il Dipartimento della Difesa, hanno legami con l’esercito cinese.
“A Washington possono pensare quello che vogliono, ma con il mio team abbiamo salvato delle vite proprio perché il drone Matrice M30 ci permette di operare in condizioni estreme”, ci racconta Kyle Nordfors, pilota aeronautico e coordinatore degli operatori di droni presso l’ufficio dello sceriffo di Weber County, nello Utah. Alto quasi due metri, spalle da culturista, è l’epitome dell’americano pragmatico e tutto d’un pezzo. “Non me ne frega niente che un drone sia cinese se mi aiuta a ritrovare i dispersi meglio di un prodotto americano di qualità inferiore”.

L’inclusione nella blacklist delle aziende con potenziali legami militari impedisce agli enti controllati dal Dipartimento della Difesa di acquisire droni DJI per le proprie operazioni. Non influisce per ora sulla commercializzazione e distribuzione ai privati negli USA, dove secondo analisti di settore l’azienda cinese detiene circa l’80% del mercato.
“Non c’è ancora un veto all’acquisto vero e proprio, ma ci stanno rendendo la vita impossibile con queste decisioni. Nelle richieste di finanziamento, citare i droni DJI già oggi può essere un problema”, spiega Chief Richard Fields IV, capo del corpo dei Vigili del Fuoco di Los Angeles. È alla conferenza AirWorks per raccontare come i droni hanno rivoluzionato il lavoro dei suoi team, migliorando non solo l’efficacia d’intervento, ma anche la sicurezza dei pompieri. “Quando si tratta di una casa o di un edificio in fiamme, la vista dall’alto ci permette di organizzare al meglio l’azione. Nel caso degli incendi boschivi, un grave problema in California, i droni sono fondamentali per mostrare i fronti delle fiamme e capire come si muovono”.
Le forniture militari
Ma come è riuscita DJI in questi anni a conquistare una posizione quasi monopolistica nel mercato globale dei droni multirotore? C’è innanzitutto la questione prezzo: il costo di acquisizione e manutenzione dei droni DJI scende costantemente da qualche anno, nonostante cicli di innovazione rapidissimi, tipici di un settore in espansione. Poi c’è l’ecosistema: i droni, in particolare quelli professionali, si possono personalizzare con software di mapping di terze parti, o equipaggiare con accessori che abilitano nuove funzionalità. La concorrenza ci ha messo del suo, con diverse aziende che hanno preferito il più remunerativo settore militare a quello commerciale. È il caso della francese Parrot, che ora si dedica alle forniture (queste sì, conclamate e accertate) per l’esercito francese attraverso una controllata statunitense, la Parrot Anafi Usa. Anche per l’americana Skydio, che controlla una piccola fetta del mercato dei droni commerciali, il fatturato si deve in gran parte ai contratti di fornitura per l’esercito Usa.
Come Huawei?
"Non so se DJI costruisca droni per i militari in Cina, ma se parliamo di rischi per la sicurezza nazionale, non capisco quale sia il problema per soccorritori e forze dell’ordine», dice Chief Fields. «Abbiamo paura che un centro di controllo cinese ci osservi mentre spegniamo un incendio o salviamo la vita di una persona dispersa?"
L’impressione è che il copione dell’amministrazione Biden sull’affaire DJI sia simile a quello seguito dal governo Trump nel caso di Huawei, anche se ci sono differenze importanti. Innanzitutto DJI non ha una dipendenza critica da fornitori statunitensi, come Google per Huawei. Poi non si occupa di infrastrutture strategiche, come le reti mobili per il 5G. Infine, DJI ha dalla sua le testimonianze e il supporto di “civil servants” al di sopra di ogni sospetto, come Chief Fields, Kyle Nordfors e molti altri, che non vogliono essere costretti a comprare prodotti “inferiori” solo sulla base della nazionalità di appartenenza del produttore.
Il Pentagono si contraddice da solo
Finora gli audit indipendenti non hanno prodotto alcuna prova delle collusioni militari di cui DJI è accusata. In compenso hanno confermato che i droni dell’azienda usati in Usa e Europa non inviano alcun tipo di dato in Cina: i dati si spostano fra server e datacenter localizzati in America o in Europa. Non solo: un report interno del Pentagono, all’inizio del 2021, aveva confermato che i droni di DJI usati dagli enti governativi americani non comportavano alcun rischio di interferenza cinese, ed erano anzi raccomandati per l’uso.
Sei mesi più tardi, il Pentagono si è rimangiato tutto, dicendo che era in corso un’indagine sulla fuoriuscita di quel primo rapporto “errato”. Nel frattempo al Congresso e in Senato, un nutrito gruppo di politici bipartisan ha continuato a tenere alta la tensione, fino all’iscrizione nella blacklist dei giorni scorsi. A nulla sono serviti gli sforzi di lobbying di DJI, che nel 2022 ha già investito quasi 700.000 dollari per perorare la sua causa a Washington. "Siamo un bersaglio facile, del resto. Da una parte c’è una naturale diffidenza verso i robot volanti dotati di videocamere, dall’altra un pregiudizio di partenza contro qualsiasi attività cinese», spiega Adam Welsh, Capo globale della Policy di DJI. «Credo che le cose andranno un po’ peggio prima di migliorare. Ci vorrà tempo".
I droni in scatola
Il lavoro di Welsh in si concentra sulle regolamentazioni a livello globale. Per i droni professionali il nodo centrale adesso sono le normative per le applicazioni BVLOS (Beyond Visual Line of Sight), cioè il volo autonomo e automatizzato, pre-programmato o controllato da un operatore remoto. Proprio qui a Las Vegas, DJI ha presentato in anteprima mondiale il suo “Dock”, uno scatolotto da 90 Kg che può ospitare un drone Matrice M30, proteggerlo dalle intemperie, gestirne in autonomia il decollo, la missione e il rientro.
Con DJI Dock i droni fanno (quasi) tutto da soli

Inizialmente gli usi del Dock saranno limitati a operazioni in luoghi remoti e impervi, dove inviare operatori umani è sia costoso, sia molto rischioso. L’uso di un drone automatizzato può velocizzare operazioni critiche che oggi richiedono molto tempo e risorse, come l’identificazione dei container nei porti e nei terminal ferroviari, o il primo intervento in caso di incidenti o avarie nei complessi industriali di grandi dimensioni.
"Qui negli Stati Uniti si va avanti a forza di eccezioni alle regole esistenti, ma si sta lavorando a una normativa federale che includa i casi d’uso più recenti», conclude Welsh. "L’Europa è più avanti, l’impalcatura normativa c’è già. Del resto da voi il dialogo con le istituzioni e il legislatore è più sobrio e lineare rispetto agli Stati Uniti. Si può ragionare sulla base dei fatti e non delle illazioni".