Prigionieri solitari e senza vie d’uscita nemmeno immaginarie perché la loro memoria è persa. I pazienti affetti da demenza senile ed in particolare di Alzheimer sono tra quelli che più hanno sofferto del lockdown imposto dalla quarantena del Coronavirus che per molti ha rappresentato la “spallata finale” verso la morte, spesso avvenuta nella disperata solitudine di ospedali, residenze per anziani e lungo-degenze, lontani da qualsiasi contatto a causa dell’isolamento a cui i familiari, gli amici ed i parenti erano costretti dalle norme anti-Covid. Infatti, si stima (probabilmente per difetto) che almeno un quinto delle vittime del Covid-19 conviveva già con una forma di decadimento cognitivo. Secondo gli ultimi dati, in Italia ci sono 1.200.000 persone affette da demenza di cui la metà da Alzheimer. Prevista una triplicazione dei casi nei prossimi 30 anni. In occasione della Giornata mondiale dell’Alzheimer che si celebra oggi, abbiamo cercato di capire qual è stato l’impatto della pandemia su questi pazienti e in particolare su quelli ospitati nelle Rsa ma anche quali sono i filoni di ricerca da cui ci si può aspettare qualche buona notizia.
L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha pubblicato un documento sullo stato di benessere mentale durante la pandemia da Covid-19 dal quale emerge che sia i soggetti con declino cognitivo minimo sia quelli con demenza conclamata, specialmente coloro che si trovavano in strutture di lungo-degenza, hanno sperimentato un maggior livello di sintomi come ansia, stress, agitazione, apatia e isolamento sociale. “L’accesso ai Pronti Soccorsi, l’ospedalizzazione e la morte per Covid-19 - conferma Paolo Maria Rossini, responsabile progetto nazionale Interceptor presso la Fondazione Policlinico Gemelli e direttore del Dipartimento di Neuroscienze all’Irccs San Raffaele-Pisana - sono state decisamente più elevate nella popolazione anziana affetta da demenza rispetto a quella non demente. Il tasso di mortalità tra chi aveva una demenza è risultato, infatti, più che doppio rispetto a chi invece non l’aveva”.
Ma c’è un altro aspetto importante da considerare e a cui forse non si è prestata la dovuta attenzione come fa notare il professor Rossini: “Tra i sintomi d’esordio dell’infezione da Covid-19, oltre a quelli classici respiratori e febbrili, possono anche esserci un peggioramento dello stato di confusione, disorientamento ed agitazione, cioè sintomi che caratterizzano la maggior parte delle demenze, rendendo perciò più problematica e spesso tardiva la diagnosi”. La conferma arriva da uno studio spagnolo in cui sono stati presi in considerazione soggetti con una forma iniziale ed una conclamata di demenza: il confronto dei loro livelli cognitivi misurati attraverso batterie di test neuropsicologici prima e dopo il lockdown ha chiaramente dimostrato un peggioramento molto importante (oltre il 40%) che è stato riscontrato anche tra i loro caregivers.
E poi ci sono i numerosi morti nelle Rsa di cui tantissimi erano proprio pazienti con una forma di demenza. Da mesi l’Alzheimer’s Disease International, assieme all’University College e alla Scuola di Economia e Scienze Sociali di Londra, aggiorna le statistiche per misurare l’impatto del Covid-19 sulle persone affette da una demenza. Gli autori del report hanno raccolto i dati relativi sia all’impatto che alla mortalità della polmonite interstiziale nelle persone con demenza in Regno Unito, Spagna, Irlanda, Italia, Australia, Stati Uniti, India, Kenya e Brasile. Sfogliando le 31 pagine del dossier, si evince che quasi 9 decessi su 10 hanno riguardato persone con più di 65 anni. E tra queste, in alcuni contesti, 3 su 4 erano già affetti da una demenza.
Eppure, questo 2020 ha in serbo qualche speranza in più per questi pazienti perché sembra che finalmente una delle numerose sperimentazioni con farmaci potenzialmente in grado di modificare l’andamento naturale della malattia stia per concludersi con dati incoraggianti. “Si tratta di un farmaco che blocca la formazione di placche di beta-amiloide e forse aiuta anche a ridurre quelle già formate”, spiega Rossini invitando alla cautela. La beta-amiloide è uno dei presunti killers alla base del processo di neurodegenerazione che porta alla morte delle cellule nervose ed alla progressiva perdita delle funzioni cognitive. Un primo limite, quindi, è il fatto che potrà essere somministrato solo se c’è la presenza consistente di placche di beta-amiloide, situazione che riguarda solo una parte dei malati. “Inoltre, dai dati sin qui disponibili - aggiunge il neurologo - sembra che l’efficacia del trattamento sia limitata alle primissime fasi della malattia probabilmente perchè in quelle successive la possibilità di recupero legata anche alla disponibilità di una ‘riserva di neuroni’ è completamente perduta. Se a questo aggiungiamo che il trattamento comporta effetti collaterali non banali (in particolare emorragie cerebrali) e che i costi saranno elevati, ne deriva che non sarà possibile fornirlo a pioggia a larghe fasce della popolazione”.
Come identificare al meglio e precocemente i pazienti ad alto rischio ed intercettare al loro interno coloro che avranno le caratteristiche giuste per usufruire al meglio dalla cura? “Questo è uno dei tanti motivi per cui nacque oltre tre anni fa il progetto Interceptor che vede l’Italia come primo paese al mondo che mira ad identificare un insieme di biomarcatori in grado di intercettare coloro che svilupperanno la malattia quando questa ancora non ha intaccato in modo inesorabile le loro riserve neurali”, spiega Rossini. Il progetto sta completando ora il reclutamento dei 500 soggetti previsti attraverso 20 centri reclutatori in altrettanti ospedali italiani. Vengono studiati sei diversi biomarcatori acquisiti al momento del reclutamento. I 500 soggetti vengono seguiti poi per 3 anni (termine dicembre 2023). “A quel punto - conclude Rossini - capiremo quale insieme di biomarcatori fornisce le previsioni più accurate con i costi più sostenibili anche per malati e famiglie, per esempio non obbligandoli a fare viaggi lontani da casa perchè non c’è la tecnologia necessaria nell’ospedale più vicino”.
Alzheimer, durante l'epidemia un decesso su 5 riguarda pazienti con demenza
di IRMA D'ARIA
Tante le iniziative per sostenere la ricerca in occasione della Giornata mondiale che ci ricorda anche quanto l'epidemia abbia reso i pazienti più fragili