Chi non ha mai avuto un capo capace di garantire una comfort zone? Dalla millefoglie di t-shirt impilate nel guardaroba al cardigan che fa sentire al sicuro in età adulta, il racconto di Muzzopapa per il nostro "Dizionario letterario della moda".
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Crescendo (il termine esatto è invecchiando) le mie preferenze in fatto di abbigliamento sono cambiate. Se a sedici anni giravo in maniche corte sia d’estate che d’inverno noncurante del raffreddore e della polmonite, ormai mi limito a fissare la millefoglie di t-shirt impilate nel mio guardaroba come fosse un oscuro ricordo del passato. Ne compravo di molto colorate e con scritte improbabili, marchi esibiti e tasche cucite in punti in cui nessun essere vivente avrebbe mai avuto bisogno di una tasca, tipo sulla schiena o appena sotto la spalla sinistra.
La passione per le t-shirt arriva dalla mia infanzia. Da piccolo, infatti, cantavo nel piccolo coro del mio paesino, una versione locale dello Zecchino d'oro. Avevamo una divisa d'ordinanza composta da pantaloni rigorosamente bianchi e una maglietta molto bella a maniche corte a righe arcobaleno, parecchio sgargianti. Posso rivendicare con orgoglio di aver sostenuto il movimento lgbt+ prima ancora che esplodesse. Avevo sei anni e un vistoso apparecchio ai denti.
Con il passare del tempo, però, si sono fatti sentire gli acciacchi, a quarant'anni i primi dolori reumatici e nel giro di poco sono passato dalla crema solare sempre nello zaino al voltaren sempre in borsa. Ormai alle magliette a maniche corte preferisco i maglioni di lana, che l'industria del fast fashion comunemente chiama “Knitwear”. Mia nonna, che non parlava inglese, si dedicava al knitwear nei ritagli di tempo, e non c'era niente di fast, in quel tipo di approccio ai vestiti. Si trattava di maglioni destinati a durare per sempre: erano in pura lana vergine tosata da intere greggi di pecore al pascolo e non, come oggi, dalla trasformazione dei pallet di plastica da riciclo. Quei maglioni sviluppavano lo stesso calore di un reattore nucleare. E poi erano ignifughi. La faccenda potrà sembrare marginale, ma quelle maglie resistevano anche alle fiamme. Avete mai provato ad avvicinarvi a un caminetto acceso con un pullover di lana sintetica addosso? Il mio consiglio è quello di non farlo durante il cenone di Natale perché si corre il rischio di fare la stessa fine dell’arrosto con le patate.
Io adoro quei cardigan di un tempo, con quello stile un po' da nonno, aperti sul davanti con bottoni a levetta in legno oppure bombati, di un marrone così scuro che nessuno vorrebbe mai nemmeno su un cappotto. Mi piacciono, mi tengono al caldo e mi fanno sentire protetto. Anche perché, con tutta la lana che c'è dentro, secondo me funzionano anche da giubbotto antiproiettili. Trovarne di buoni, in giro, non è facile. Durante la pandemia, per esempio, mi sono concesso qualche acquisto online. Ho visitato uno di quei siti in cui tutti i modelli mezzi nudi stanno bene anche con un canovaccio da cucina recuperato da una discarica e usato come sciarpa. Ho consultato tutto il catalogo alla voce knitwear e dopo un’attenta ispezione ho aperto un ordine e infilato nel carrello due maglioni: uno giallo in lana d'agnello e uno verde a coste grosse e con uno stile leggermente anni ’80. Aprendo la confezione, mi sono immediatamente reso conto del perimetro del disastro: mentre il maglione giallo mi vestiva a pennello, quello verde era perfetto per un body builder che gareggia per l'MMA, non per me. L'ho spalancato più volte davanti ai miei occhi increduli, sbattendo molto le palpebre, ma ho capito che non c’era niente da fare. La taglia M indicata sul sito, corrispondeva a in realtà a un XXL. Siccome mi piace imparare dai miei errori, non ho fatto il reso, ho tenuto il maglione e in alcune, rare occasioni continuo a indossarlo. Puntualmente sembro un uomo in abito prémaman e, come è giusto che sia, colleziono critiche da parte di amici fasciati in abiti 100% polietilene e argilla espansa. A quei sorrisi rispondo sempre allo stesso modo: magari il mio maglione è veramente brutto, ma almeno non corro il rischio di prender fuoco, come loro, per autocombustione.
L'autore
Nato a Bari, ma milanese ormai da anni, Muzzopapa è un apprezzato copywriter che per la categoria in cui eccelle, la pubblicità radiofonica, ha ottenuto riconoscimenti in Italia e all’estero. La carriera di scrittore iniziia con "Una posizione scomoda", libro d’esordio uscito nel 2013, continua con "Affari di famiglia" (2014), "Dente per dente", vincitore del Premio Troisi nel 2017 e "Heidi" (2018): tutti i titoli sono stati pubblicati da Fazi editore e tradotti in Francia dall’editore Autrement. Recentemente, ha pubblicato per De Agostini due libri per ragazzi, "Il primo disastroso libro di Matt" e "L'Inferno spiegato male", con il patrocinio di Dante 2021, Comitato nazionale per la celebrazione dei 700 anni.
Il suo ultimo libro però è Un uomo a pezzi, Fazi editore, uscito nel 2020. Libro fatto di tasselli e frammenti di varia umanità, in cui si racconta per la prima volta attraverso storie spassose e irresistibili. Se si è nati al Sud, quanto coraggio occorre per tornare a casa durante le vacanze? Come ci si procura del caffè decente quando si è all’estero? È possibile uscire vittoriosi dopo l’immancabile chiamata di un call-center? Dal fascino bislacco dei luna park alla curiosità per la moda del centro massaggi, una raccolta di racconti singolari si trasforma in una riflessione sincera e divertente sul nostro folle, frenetico mondo.
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