Un racconto scritto a quattro mani introduce la nuova puntata del nostro "Dizionario letterario della moda", podcast realizzato da Moda e Beauty, prodotto da Gedi Visual. Tutti gli episodi di "Dizionario della moda" possono essere fruiti dalle Homepage dei quotidiani del gruppo Gedi e sono ascoltabili anche sull'app One Podcast (https://www.onepodcast.it/).
Ascolta il podcast
Leggi il racconto: "Un bello spettacolo", di Jolanda Di Virgilio e Sara Canfailla
“Qui? Sei sicura?”.
“Sì qui va bene, è perfetto”.
Il buio sfoca i contorni, l’ambiente è fatto di macchie scure. L’aria odora di prato, terra e fumo di sigaretta. Strizza gli occhi, si agita sul posto, la suola degli stivali affonda sul morbido.
“Ma sei sicura che non ci vede nessuno?”
L’altra si è già abbassata le mutande, incorniciata dai profili di cespugli, rami e piccole palme. Due secondi, ed ecco lo scroscio. L’immagine di donna accovacciata, la gonna arrotolata sulla pancia, i tacchi schizzati da gocce di pipì, è così disturbante da risultarle irresistibile. Non ha mai visto una donna pisciare in quel modo prima. È un bello spettacolo. Sa di sollievo ed evasione.
Sente un languore al basso ventre, si domanda se anche le sue ginocchia saranno in grado di flettersi così tanto. Da lontano, i rimasugli della musica di una festa sul punto di spirare.
“Vuoi un fazzoletto?”, chiede, già pronta a tirare fuori dalla borsa un pacchetto di Tempo e una confezione di salviette umidificate al limone. L’altra la ignora. Si è già rialzata e sta facendo ondeggiare il bacino con una sapienza che sa di ingloriosi anni di balli di gruppo al campo estivo. Tira su gli slip e sistema la gonna. Di nuovo eretta, presentabile, umana. Ha finito, ora è il suo turno.
“E se ci vede qualcuno?”
È un po’ preoccupazione, un po’ desiderio. L’ansia di essere colta in un atto privato, e la voglia che quell’atto sia testimoniato. Che la sua parentesi di fuga, di schifo, di sporco, resti impressa nella memoria di qualche passante ignaro e probabilmente ubriaco. Che sia messo agli atti, vorrebbe dire, che io sono una donna che si sta per abbassare le mutande in un parco, e sta facendo pipì.
“Non ci vede nessuno, dammi la giacca”.
“La tengo addosso”.
“Ti sporchi”.
“La tengo”.
Avanza verso il punto già battezzato e se ne allontana solo di un passo. Imita i gesti dell’altra, uno dopo l’altro: si arrotola i lembi della giacca fin sopra alla vita, mentre con una mano fa scendere le mutandine giù, più giù, verso uno stato brado, animale, in cui nulla la separa da un cane che annusa il terreno e decide che gli piace a sufficienza per abbandonare lì i suoi liquidi. Poco prima di lasciarsi andare, cerca di fissare nella sua mente quel momento: un parco semivuoto alle tre di notte, un’estranea conosciuta per caso che ora la osserva piegarsi e urinare, come se fosse la cosa più naturale del mondo; un piccolo strappo alla regola, soltanto uno, prima di tornare, domani mattina, a essere quello che è sempre stata.
Nel delirio della ribellione, dei cocktail e dello spinello che le è stato offerto e che avrebbe dovuto rifiutare, ma che non ha rifiutato, né la prima, né la seconda, né la terza volta, si sofferma sul getto che scorre via e atterra, caldo, sul terreno. E proprio mentre un rivolo sottile devia e cola lungo la coscia, si ritrova a chiedersi se sia quella, la libertà.
Il bruciore dei muscoli delle cosce l’avverte che è il momento di tornare su. Lascia andare il vestito e i lembi della giacca, ma le sue dita si scontrano con un tessuto umidiccio.
“È bagnata”, sussurra, divertita. “Si è bagnata”.
“E dove si vede tra cinque anni?”.
Arriccia le labbra, stringe gli occhi. Finge di pensarci, ma sa già cosa dire. È una domanda di repertorio, alla quale ha risposto una decina di volte soltanto nell’ultima settimana.
“Mi piacerebbe gestire un team”, anche se un team non sa neanche immaginarlo, “Diventare un punto di riferimento”. Fa una breve pausa, poi scandisce con calma: “Sono molto ambiziosa, sono sicura che la vostra realtà potrà offrirmi quello che cerco”.
Realtà, offrire, team, punto di riferimento.
Snocciola parole vuote con sincerità spiazzante. L’uomo davanti a lei la scruta con diffidenza, come se cercasse di stanare una macchia, un segnale, un non detto.
Avrà seguito qualche corso online per imparare a selezionare il personale. Uno di quelli in cui ti dicono di prestare attenzione al linguaggio del corpo, e non a quello verbale; al tono di voce, e non ai contenuti. Anche lei ne ha frequentati un paio prima di iniziare la lunga stagione dei colloqui, ed è per questo che ora ne è certa: è tutta questione di apparenza, di performance. Come inclini la testa, dove posi gli occhi, come intrecci le mani. Cosa indossi.
Ha scelto di mettere la giacca, di nuovo lei, sempre la stessa, la giacca in cui ora si annida la libertà sperimentata per la prima volta la sera prima, e che ancora sa di quello, di possibilità, di trasgressione mista a un odore denso di ammoniaca, fumo e gin tonic. La giacca è un monito appoggiato sulle spalle, sta lì a ricordarle con dolcezza che lei è più di una risposta pronta, di un insieme di esperienze e titoli di studio, di un anno all’estero e di un certificato in lingua. Che c’è una parte intoccabile, che lui non vede e che non vedrà mai, che potrà solo percepire. L’imperfezione, il rivolo di pipì che sbaglia percorso, che si ribella, che nessun lavoro, nessuna promessa di futuro, nessuna obbedienza alle regole potrà mai intrappolare.
“Quindi sarebbe disposta a iniziare da subito?”
L’uomo scivola in avanti sulla poltrona e allenta un pelo il nodo della cravatta, segnale inequivocabile di resa, cedimento, vittoria.
Lei rimane immobile, non si sbilancia. Il corpo rigido, i muscoli del viso distesi. Lascia trascorrere sempre la stessa quantità di tempo tra domanda e risposta, come se avesse un metronomo interno per tenere il ritmo della conversazione. Il ricordo istantaneo di lei accovacciata tra i cespugli, la sensazione di calore che le scorre tra le gambe le dà una piccola scossa. L’illusione che qualsiasi sia il ruolo che le imporranno, non se la porterà via. Non completamente. Un angolino di lei resterà sempre salvo, inafferrabile, selvaggio.
“Assolutamente”.
Lui si alza e lei - attende, attende ancora un po’ - fa lo stesso. Poi una breve sessione di convenevoli - breve, deve essere breve - in cui è affabile e cortese, estremamente controllata. Una recita eseguita in modo brillante. Le piace sapere di essere così: divelta, a metà. Tremolante e disorientata mentre cerca di tenersi in equilibrio per pisciare di notte, decisa e impenetrabile la mattina dopo, quando si sveglia ed è di nuovo una persona adulta, come se niente fosse successo, pronta a indossare i panni della donna seria, civile, che sa come comportarsi e quanto tempo lasciar passare prima di rispondere alle domande.
Lui la ringrazia, “grazie del suo tempo”, le dice.
Lei ricambia, “grazie a lei”, gli dice.
Si avvicinano di un passo, prima lui, dopo lei. Si afferrano le mani con un movimento simultaneo, le dita che si stringono con decisione - deve essere forte, la stretta. Del cedimento, della trasgressione, dello sprofondamento della sera prima, non sembrano esserci residui. Le giacche si sfiorano, i loro occhi si incrociano, e lei allora lo vede, o forse se lo immagina, anche lui, da qualche parte, solo o in compagnia, mentre si abbassa le mutande all’angolo di una strada, vicino a una siepe, o in una piazzola di sosta, e si libera, anche lui animale, niente di più lontano dalla persona che ora la guarda e la giudica.
Lui la osserva. Qualcosa gli fa credere che sia davvero lei la persona giusta, anche se non ha ancora capito cosa.
“Arrivederci”, le sorride per un ultimo saluto. “E complimenti per la giacca”.
Le autrici
Jolanda Di Virgilio e Sara Canfailla sono due neolaureate in lettere moderne, fuorisede, appassionate di scrittura, che si conoscono a Torino seguendo un corso di sceneggiatura seriale alla Scuola Holden e decidono di scrivere un libro assieme su un tema che le accomuna: il precariato. Così è nato “Non è questo che sognavo da bambina” pubblicato da Garzanti, storia di una come loro: "Neolaureata. Coinquilina. Fuorisede. Precaria". Il suo nome è Ida, stagista in una grande agenzia di comunicazione, che non è quello che sognava da bambina. Ida avrebbe anche voluto vivere ovunque tranne che a Milano, e avere una relazione invece di essere sempre single. Insomma, la sua è una vita che va storta fino al giorno in cui capisce che, per sopravvivere, deve adattarsi, assomigliare più a loro - i suoi colleghi, il suo capo - e meno a sé stessa...
Scopri le altre puntate del podcast