Prima che i cuochi diventassero rockstar. Prima, molto prima che si affermasse il cliché narrativo per cui a un certo punto del giallo gli investigatori cucinano, o mangiano nel ristorantino sul mare (e il lettore confondesse l’acquolina in bocca con il desiderio di voltare pagina). Prima di allora sono esistite romanzesche tavole, imbandite o frugali, e pietanze più famose dei personaggi della storia in cui apparivano. Le fotografie qui pubblicate “inscenano” le più letterarie di quelle occasioni. Intendiamoci però: non c’è mai stata una vera Colazione da Tiffany e nessuno mangia davvero, vestito o no, nel Pasto nudo. La cena di Herman Koch è soltanto il pretesto per un dilemma morale. E bisogna pur comprendere la decisione del fotografo di escludere il famoso Pranzo di Babette, racconto di Karen Blixen che ha ispirato il film. Il menu non era riproducibile: brodo di tartaruga, blinis Demidoff, quaglie en sarcophage, insalata, formaggi, savarin, frutta, caffè con tartufi al rum, pinolate, frollini e amaretti; il tutto innaffiato da tre diversi champagne e da amontillado bianco ambra. Come Babette si sarebbe rovinato per trovare gli ingredienti. Si cucina con quel che si ha. Scorrendo le fotografie tre sono gli “ingredienti” irrinunciabili, le situazioni memorabili. In ordine sparso.
A merenda con Proust
“…mi portai alle labbra un cucchiaino di tè dove avevo lasciato ammorbidire un pezzetto di madeleine. Ma, nello stesso istante in cui quel sorso frammisto alle briciole del dolce toccò il mio palato, trasalii, attento a qualcosa di straordinario che accadeva dentro di me. Un piacere delizioso mi aveva invaso, isolato, senza nozione della sua causa. (…) Da dove m’era potuta venire quella gioia violenta? Sentivo che era connessa col gusto del tè e della madeleine… All’improvviso il ricordo è davanti a me”.
Il protagonista non sta mangiando, ma evocando. Sta apparecchiando sulla tavola della memoria. La sedia è vuota, dalla tazza non si leva fumo, un biscotto è in briciole, la tappezzeria non testimonia. Nella stanza non c’è nessuno perché tutti sono altrove, in un altro tempo, quello “ritrovato”. La madeleine lo ricrea. Quel meccanismo è arrivato fino al critico gastronomico del cartone Ratatouille. Prima che inventassero le canzoni era ai sapori che bisognava affidarsi per viaggiare nel passato. Lo si fa ancora, ma è una forma di nostalgia perché è noto che “non esiste più la frutta di una volta” e il ricordo non restituisce. La madeleine resta lì, sbriciolata, sulla tovaglia ricamata, ed è solo un pezzo di biscotto che qualcuno non ha intinto nel tè.
La colazione secondo Joyce
“Leopold Bloom mangiava di gusto le interiora di animali in genere e di volatili in particolare. Gli piaceva mangiare dense minestre di rigaglie, gozzi ripieni dal sapore pastoso, cuore farcito arrosto, fette di fegato impanate e fritte, uova di merluzzo fritte. Soprattutto andava matto per i rognoni di castrato alla griglia, che gli lasciavano sul palato un fine sapore di urina lievemente aromatica. Aveva in mente i rognoni mentre si muoveva per la cucina senza far rumore, sistemando su un vassoio ammaccato le stoviglie per la colazione di lei. La luce e l’atmosfera della cucina erano gelide, ma fuori un dolce mattino estivo s’annunciava dovunque. Il che gli dava un certo languore allo stomaco. Le braci si stavano arrossando. Un’altra fetta di pane imburrato: tre, quattro, bene”.
Se in Proust il cibo è memoria, in Joyce è morte, sangue, urina perfino. Dal melò all’horror. Da Babette alla Grande abbuffata. La colazione di Leopold Bloom, che ne apre la giornata raccontata in scala 1:1, è già di per sé una foto (o il dipinto di un pittore olandese). Ha il taglio di luce fredda che fa da contorno a quel menù impensabile per un lettore italiano, a quell’ora poi. Gli aggettivi gonfiano le prospettive: i gozzi sono “ripieni”, il cuore “farcito”, le minestre “dense”. Su tutto aleggia il fantasma dei “rognoni”, che si affacciano nella fantasia del protagonista e devastano quella di chi legge. Non tutto quel che è commestibile si può mangiare. Per riprodurre il desiderio di castrato alla griglia ci vorrebbe un fermo immagine dal cannibalistico Bones and all di Luca Guadagnino. O la quasi ultima cena di Mitterrand (8 giorni prima di morire) raccontata da McCann in Apeirogon. L’ex presidente divora, la testa nascosta da un tovagliolo che imprigiona sapori e odori, un ortolano, uccelletto proibito, sgranocchiandolo come una nocciolina. Un rito tremendo. Come un rognone.
Le ciliegie di Kerouac
“Ci fermammo lungo la strada per mangiare un boccone. Il cow boy andò a far riparare la gomma di scorta; io e Eddie entrammo in una specie di ristorante casalingo. Sentii una gran risata, la più grande risata del mondo e apparve un personaggio del Nebraska di altri tempi. (….) Entrò nel locale chiamando Ma per nome con quel vocione di tuono, lei faceva la torta di ciliegie più buona di tutto il Nebraska e io me ne feci dare una fetta con una montagna di gelato sopra. “Ma, dammi qualcosa da mettere sotto i denti prima che mi strappi via la carne a morsi o qualche altra scemenza del genere”. Si lasciò andare su uno sgabello e fece ah!ah!ah! “E non dimenticare i fagioli”. Era lo spirito del West, quello che mi sedeva accanto”.
Con Kerouac la tavola non è neppure apparecchiata, è la superficie di formica di un diner su cui, tra un cliente e l’altro, basta passare lo straccio. Anche il cibo non suscita emozioni, positive o negative. La torta alle ciliegie è “la più buona di tutto il Nebraska”, ma che vorrà dire? Quante torte alla ciliegia si cucineranno in quello Stato più attraversato che abitato? Né memoria, né autopsia, quel che si mangia diventa storia. Conta chi l’ha cucinato e per chi. A finire sul piatto è ”lo spirito del West”, afferrato al volo, perché siamo tutti di passaggio e ci fermiamo il minimo indispensabile “lungo la strada”. Siamo in viaggio. Kerouac è il primo Tripadvisor, ma dà un solo consiglio: non fatevi prendere per la gola, andate avanti.