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Su Sports Illustrated la prima modella che mostra la cicatrice del cesareo

Su Sports Illustrated la prima modella che mostra la cicatrice del cesareo
L’edizione annuale della rivista dedicata alle modelle in costume è quest’anno più diversificata che mai. Donne magre, grasse, nere, bianche, alte, basse. C’è persino una donna incinta e una che mostra (per la prima volta) la cicatrice del cesareo. Così anche l’oggettificazione del corpo femminile diventa inclusiva
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Ogni anno la rivista Sports Illustrated pubblica la Swimsuit Edition, ovvero un numero interamente dedicato a modelle in costume da bagno, un vero e proprio catalogo di donne in bikini. L’edizione 2022 include la modella Kelly Hughes, che mostra la cicatrice del taglio cesareo appena sopra lo slip: la notizia sta facendo il giro del web, perché è la prima volta che un magazine lo fa vedere in maniera così evidente. L’intento è quello di “spostare la narrativa mainstream associata ai corpi delle donne, specialmente quando diventano mamme. Mandiamo il nostro amore alle mamme, onoriamo il potere del corpo femminile e la bellezza della maternità!” si legge nella didascalia del post Instagram che presenta la ‘rivoluzionaria’ immagine.

Il magazine spiega di aver collaborato con l’azienda di prodotti per la maternità Fridamom, partnership che fa parte del percorso PayWithChange: a partire da questa primavera SI Swimsuit Edition ha infatti annunciato di voler collaborare solo con brand che si impegnano realmente per la parità di genere.

Da qualche tempo infatti il magazine, da sempre un pilastro dell’oggettificazione delle donne, ha deciso di fare proprie le questioni di genere, la diversità, la body positivity, l’empowerment, proponendo una nuova versione di sé, impegnata e inclusiva. Nel 2021 per la prima volta nella storia una modella transgender, Leyna Bloom, è stata scelta per una delle tre cover dell’edizione. Ogni anno prima dell’uscita del numero cartaceo la rivista lancia un contest per modelle amatoriali, e quest’anno le finaliste erano davvero un inno alla diversità.

Scorrendo la pagina Instagram del magazine si nota come da qualche mese a questa parte abbondino le modelle con corpi di ogni taglia, forma e colore della pelle. C'è una donna incinta. La rappresentazione delle over 50 è invece molto scarsa, e anche per quanto riguarda le modelle transgender una volta scelta Leyna Bloom, è rimasta solo lei. Ma oggi abbiamo la prima modella con la cicatrice del parto cesareo a pareggiare i conti facendo salire la quota inclusività.

In generale i commenti sono entusiasti: moltissime utenti sui social si dicono felici di sentirsi finalmente rappresentate. Eppure, è difficile accogliere un cambiamento così radicale senza che sorga qualche dubbio: è davvero genuina la volontà di influenzare positivamente la società, o si sta solo saltando sul carro dell’inclusività, tema che oggi nessuno può ignorare se vuole continuare a rimanere competitivo? Questi imperi costruiti su presupposti che oggi appaiono preistorici (è eclatante il caso di Victoria's Secret) credono davvero nella necessità di cambiare o sono costretti a farlo per continuare a sopravvivere?

I sentimenti sono contrastanti. Da un lato il cambiamento è positivo, ma dall’altro c'è la continua oggettificazione delle donne. Oggettificazione inclusiva, ovviamente: non solo di un tipo di corpo, ma di tutti. Le modelle (alte o basse, magre o grasse, bianche o nere) continuano ad essere ammiccanti, sexy, provocanti, e assolutamente belle secondo gli standard più classici. Il target a cui si rivolgeva prima il giornale è rimasto lo stesso, i servizi sono sempre pensati per appagare lo sguardo maschile. Gli standard dell’oggettificazione si sono semplicemente allargati: può questo essere davvero empowering?

Se ti infastidisce la donna-oggetto, la nuova Swimsuit Issue non ti conforterà”, scrive sul Washington Post Kate Cohen, riferendosi all’edizione 2021. “Con poche eccezioni, le oltre 100 pagine dell’edizione cartacea sono un compendio di sguardi seducenti, fianchi sinuosi, morbide labbra socchiuse, schiene inarcate. Donne che si rotolano nella sabbia e ammiccano alla macchina fotografica, testa reclinata, decolté in primo piano”. Certo, è un giornale patinato, scrive la giornalista, ma il messaggio di empowerment scompare in un batter d’occhio di fronte a quello che le immagini rimandano in modo ben più palese: ogni donna può essere oggetto del desiderio (maschile), non solo quelle ‘perfette’ di un tempo. “Lo scopo di ogni donna è attrarre e sedurre” sembra dire la nuova versione della rivista.

Probabilmente la contraddizione fa parte del processo di cambiamento, ma metter qui e lì una donna con le cosce grosse, una con la cicatrice del cesareo, una con i rotolini sulla pancia, è davvero un passo in avanti verso l’inclusività o è piuttosto un restyling della donna-oggetto in versione contemporanea?  “È un tipo di rivista destinata a morire. Si stanno arrampicando sugli specchi… Questi cambiamenti ammiccano a un’audience che non comprerà mai il magazine”, scrive un utente sui social della rivista. “Rompere con la narrativa tradizionale sui corpi delle donne continuando con l’altrettanto lunga tradizione di oggettificarli?” scrive un'altra utente a commento di un post della modella con il taglio cesareo.

La stessa riflessione la fa Forbes attraverso le parole di Kim Elsesser: può davvero Sports Illustrated, pur nella sua edizione dedicata alle donne in bikini, essere una piattaforma per il cambiamento e la parità di genere? “La cosa migliore che potrebbe fare per le donne” commenta Elizabeth Daniels, professoressa della facoltà di psicologia dell’University of Colorado “sarebbe coprire le donne nello sport, e ritrarle come atlete, non come oggetti sessuali”. La body positivity nasce con buoni propositi, ma applicata in questo modo superficiale può rivelarsi un grande buco nell’acqua: “Quando i soldi vengono guadagnati oggettificando le donne” riflette Elsesser, “il contributo potrebbe essere problematico”.