In evidenza
Sezioni
Magazine
Annunci
Quotidiani GNN
Comuni
Non basta un’etichetta: a valutare l'eticità dei brand è il Transparency Index

Non basta un’etichetta: a valutare l'eticità dei brand è il Transparency Index

Come facciamo ad acquistare in modo etico se non sappiamo come operano i brand? Nella produzione dell’abbigliamento c’è un problema, ed è la scarsa tracciabilità della catena produttiva. Fashion Revolution ci fornisce uno strumento utile: il Transparency Index. Scopriamo quali sono i marchi più trasparenti

5 minuti di lettura

Molti ricorderanno quando, circa trent'anni fa, alcuni brand leader nel mondo dell’abbigliamento sportivo divennero oggetto di uno scandalo perché si “scoprì” (virgolette necessarie, perché era già all’epoca un segreto di Pulcinella) che sfruttavano manodopera minorile. Le immagini di bambini che cucivano palloni fecero il giro del mondo, e divennero simbolo del capitalismo più becero, quello che ha tonnellate di scheletri nell’armadio e sta ben attento a non rivelarli. Da lì in avanti molti marchi furono costretti ad assumersi le proprie responsabilità, e in alcuni casi i cambiamenti nell'operato dei brand sono stati epocali. Di sicuro, si rese evidente la necessità di una produzione più trasparente, che non è una garanzia, ma un ottimo punto di partenza: vediamo quali sono i brand di moda che forniscono più informazioni sulla loro produzione in base all'analisi di Fashion Revolution.

 

Cos’è la trasparenza e a cosa serve

Trasparenza e tracciabilità sono due termini che tornano con frequenza quando si parla di sostenibilità nella moda (e non solo). E sono due termini pieni di significato, perché identificano la base, il prerequisito essenziale dello shopping consapevole. Per un brand essere “trasparente” significa giocare a carte scoperte, e rendere pubbliche le informazioni che riguardano tutta la sua catena produttiva. Non solo il classico "made in", ma la possibilità di tracciare ogni singolo passaggio della filiera, permettendo ai consumatori di comprendere cosa c’è realmente dietro un prodotto, in ogni componente del suo ciclo di vita. Dato che prima di arrivare nel nostro armadio un capo di abbigliamento attraversa tantissime fasi, se ci teniamo a scegliere abiti che sposano la nostra etica abbiamo bisogno di conoscere l’impatto ecologico e sociale di ognuna di queste tappe.

In questo modo è anche più difficile cadere nel tranello del greenwashing, meccanismo di marketing che agisce elogiando, spesso esagerando, l’unica fase sostenibile di una produzione oscurando quelle dannose. La trasparenza permette di scoprire eventuali scheletri nell’armadio dei brand, e non a caso, Good on You, la app di valutazione dell’etica dei marchi di moda, dà alla voce “transparency” una grande importanza. Secondo Carry Somers, co-fondatrice di Fashion Revolution, sono ancora pochi i marchi che rendono disponibili le informazioni sull’intera filiera produttiva dei loro capi, perché “Più il livello della catena arriva in profondità, più si rende visibile in quali condizioni lavorano le persone coinvolte”.

Ma facciamo attenzione, specifica Somers: non è detto che un marchio trasparente si comporti per forza in modo ineccepibile. Tuttavia è molto probabile che tracciabilità ed etica vadano di pari passo, perché nessun brand desidera rendere pubbliche le proprie mancanze, specialmente in questo periodo storico in cui etica ed ecologia sono molto apprezzate dal pubblico.

 

All’origine del Transparency Index

“Circa 10 anni fa lavoravo a Pachacuti, un brand di moda sostenibile che avevo fondato nel 1992 e mi occupavo di tracciare la catena produttiva dei nostri cappelli Panama. Risalivo all’abitazione di ognuno dei lavoratori impiegati nella tessitura, registravo le coordinate GPS di ogni pezzetto di terra usato per ottenere la paglia in Ecuador. Ma nessuno era minimamente interessato ad avere informazioni tanto trasparenti” ricorda Somers. “Poi nel 2013 avvenne il disastro del Rana Plaza: una fabbrica tessile crollò in Bangladesh causando la morte e il ferimento di migliaia di persone. Gli attivisti e i volontari dovettero cercare fisicamente tra le macerie le prove di quali brand producevano in quella struttura. A quel punto fu chiaro: l’industria della moda doveva essere rivoluzionata, e la chiave era la trasparenza. Una sera, mentre ero in vasca da bagno, ebbi l’idea: dovevamo costruire un movimento globale dedicato alla moda che mobilizzasse cittadini, aziende, politica attraverso ricerche, educazione e sostegno a cause importanti”.

Ecco dunque che nacque Fashion Revolution, che, tra le varie attività di cui si occupa, stila ogni anno un corposo Transparency Index, ovvero uno studio che valuta quanto ogni marchio di moda sia trasparente. Prendendo a campione 250 tra i marchi più celebri al mondo, l’organizzazione valuta quante informazioni essi rendono pubbliche per quanto riguarda l’impatto ambientale e sociale di tutta la filiera. Si tratta di uno strumento utile al consumatore attento, ma anche di un incentivo (o almeno si spera) ad aumentare la propria tracciabilità da parte dei brand. Inoltre, permette di osservare quali sono i punti critici e quali quelli virtuosi di ogni filiera, fornendo ogni anno un quadro globale dell’impatto della produzione moda. L’ultimo report è quello relativo al 2020.

Come viene stilato? Fashion Revolution attribuisce un punteggio ad ogni brand prendendo in considerazione 220 indicatori relativi ad aspetti sociali ed ambientali della produzione, come l’impatto sulla biodiversità, il benessere animale, l’uso di sostanze chimiche, le fonti energetiche, la gestione dei rifiuti, lo sfruttamento del lavoro, la parità di genere, le libertà sindacali dei lavoratori, le retribuzioni. Si fa il punto anche sui fornitori e sulla loro tracciabilità, e sugli impegni che ogni azienda prende rispetto al futuro. Le informazioni sono quelle rese pubbliche dai brand, ma in parte vengono anche rilevate tramite questionari che Fashion Revolution invia loro direttamente.

Il responso

Quali marchi si sono distinti per una maggiore trasparenza lo scorso anno? Quali stanno migliorando? Secondo il report, in generale i grandi retailer stanno migliorando molto la loro tracciabilità, mentre sono i marchi di lusso quelli che tendono a fornire meno informazioni. In base ai calcoli, H&M si piazza al primo posto: dei vari “nodi” che Fashion Revolution prende in esame, il gigante low cost ne rende pubblici il 73%: si tratta della prima volta in cui un marchio supera il 70%.

Trasparente al 70% è C&A, seguito da Adidas e Reebok al 69%, Esprit al 64%, Patagonia e Marks&Spencer con il 60%. Tra i marchi del lusso, è Gucci a guidare con il 48%, che registra un miglioramento rispetto all’anno precedente in cui era al 40%. Inoltre, Gucci è l’unico marchio a totalizzare il 100% dei punteggi attribuiti alla sezione “impegni presi” e politiche aziendali. Anche gli altri marchi del gruppo Kering si piazzano molto bene, appena dietro Gucci.

In generale, c’è un miglioramento rispetto agli anni passati, dato che il report 2020 sottolinea una media del 12% in più di informazioni rese disponibili tra i 98 brand che sono stati analizzati ogni anno. Lo “scatto” più grande lo ha fatto Monsoon, che è migliorato del 23% nel proprio punteggio individuale, seguito da Ermenegildo Zegna (22%). Riguardo al marchio italiano, si tratta del primo luxury brand che pubblica una lista completa dei propri fornitori, sottolinea il report.

Aumentano i marchi che rendono pubblici i loro fornitori di prima mano, e di quelli che dichiarano quali sono (non tutte, ma alcune) le strutture su cui si appoggiano per la produzione. Migliora anche la tracciabilità sull’origine delle fibre grezze, ma parliamo di un dato ancora molto basso: le rendono pubbliche solo il 7% dei marchi presi in considerazione (nel report precedente era il 5%). La Global Policy Director e autrice del report Sarah Ditty commenta “Vediamo un progresso evidente nella trasparenza, ma c’è ancora molto da fare perché i brand di moda provvedano a fornire dati credibili e completi che permettano ai consumatori di prendere migliori decisioni, sindacati e ONG di aiutare i marchi a migliorarsi per i loro lavoratori e per il pianeta, e per ogni agente coinvolto nell’avanzare verso ulteriori progressi”.


Non è tutto oro…

A voler vedere il bicchiere mezzo vuoto, più della metà dei marchi presi in analisi ha totalizzato meno del 20% del punteggio relativo alla trasparenza. In particolare, sono ancora pochissimi i marchi che rivelano le policy di pagamento per i propri fornitori. Solo il 6% rende noto che si impegna a pagare i fornitori entro 60 giorni, e solamente il 2% pubblica la percentuale di ordini saldati entro i tempi previsti da contratto. La stessa bassa percentuale si registra per quanto riguarda le informazioni relative al salario minimo.

Questo è un aspetto che durante la pandemia si è reso particolarmente cruciale, dato che tantissimi brand hanno cancellato i loro ordini senza pagare i fornitori approfittando della vulnerabilità dei lavoratori della catena produttiva. Per evitare che situazioni come queste continuino a verificarsi, sottolinea Fashion Revolution, la trasparenza è particolarmente cruciale. Secondo Sarah Ditty avere a disposizione un Transparency Index globale “Ci permette di responsabilizzare i brand e le loro pratiche… ci consente di spingerli ad assumere politiche più efficaci verso le tematiche sociali e ambientali”.