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L'intervista

Hugo Marchand, ballerino étoile all’Opera di Parigi, si racconta in Danser: “La danza è una scuola di accettazione della vita”

Hugo Marchand, foto di Julien Tavel per Moncler, direzione artistica di Carine Roitfeld
Hugo Marchand, foto di Julien Tavel per Moncler, direzione artistica di Carine Roitfeld 
Nel suo primo libro, edito da Arthaud, il prodigio della danza francese Hugo Marchand, nominato étoile a soli 23 anni, si rivolge a tutti e parla di introspezione, retroscena, lotte con se stessi e traguardi da raggiungere quando si punta all’eccellenza
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Hugo Marchand è un'étoile con i piedi per terra: 27 anni, 1 metro e 92 di altezza, un fisico spesso descritto come “atipico” per la danza, così alto e muscoloso, ma agli occhi di un profano così perfetto. Ha festeggiato il 3 marzo il suo quarto anniversario da primo ballerino dell’Opera di Parigi, lui nativo di Nantes, stessa città dove ha frequentato la prima, fondamentale accademia. Qui, a soli 13 anni, ha ottenuto la medaglia d’oro.

Poco dopo l'incoronazione a ‘stella’, al termine della rappresentazione de La Sylphide, a Tokyo, nel 2017, Hugo Marchand è chiamato dalle edizioni Arthaud ad una sfida totalmente nuova: raccontarsi in un libro. Obiettivo, esprimere cosa significhi apprendere l’arte ed il mestiere della danza da adolescente. La voce narrante è quella di un giovane nel pieno della sua carriera, non di un maestro che guardi con nostalgia ai tempi passati. Nasce così Danser, una pubblicazione che è già un successo, in Francia, e che speriamo di poter leggere presto in Italia.

La copertina di Danser, edizioni Arthaud
La copertina di Danser, edizioni Arthaud 

Contrariamente a quanto si possa immaginare, Danser non parla solo di danza e dei suoi retroscena, dell’arrivo di Hugo nell’istituzione della capitale, dapprima nella scuola dei sobborghi parigini, nel 2007; dell’ingresso nel corpo di ballo dell’Opera quattro anni dopo, fino all’ascesa di Marchand ad astro, in un percorso costellato di interpretazioni di grandi classici come Lo Schiaccianoci, Romeo e Giulietta, Sogno di una notte di mezza estate. Danser è piuttosto un diario, che l’enfant prodige - adocchiato dalla moda e conteso dalle copertine dei magazine d’Oltralpe, da Madame Figaro a Numéro- ha affidato alla penna della giornalista Caroline de Bodinat, inesperta di danza e perciò da lui prescelta per raccogliere i racconti negli anni. Il suo scopo, con ‘Danser’, è infatti rivolgersi a tutti, condividere la vulnerabilità per permettere alle persone di ritrovarsi e sentirsi meno sole. Nella storia di Hugo Marchand, il palco è stato terreno della metamorfosi e la danza una scuola per accettare se stesso.

 

A tu per tu con l'étoile

Danser ci dà l’occasione di incontrare Hugo Marchand, sperimentare dal vivo la sua incredibile grazia, anche al di fuori delle scene, e scoprire a tu per tu con il prodigio cosa racchiude il primo libro di un’étoile.

Hugo, nel libro parli delle difficoltà dei tuoi inizi, quando eri definito un ‘fisico atipico’ per essere ballerino. Quanto i giudizi come questo e la dura disciplina della danza hanno influito sul rapporto con il tuo corpo?

"Non mi sono mai sentito un 'fisico atipico', non trovo che sia particolarmente vero. È piuttosto una definizione dei media, per attirare l’attenzione, ed è emersa abbastanza presto nella mia carriera. Le prime volte rimanevo sorpreso, non ho mai pensato che la mia corporatura non corrispondesse ai criteri definiti dalla danza classica. Tutti i ballerini hanno corpi differenti: il nostro fisico deve essere muscoloso, forte come quello di uno sportivo ed allo stesso tempo elegante. È questo che è contraddittorio e peculiare della danza. Agli uomini è richiesto di saltare il più alto possibile, di sollevare le ballerine, di affrontare degli sforzi diversi se la danza è classica o contemporanea. Senza contare che cambiano i criteri estetici: negli anni Cinquanta, ad esempio, le ballerine erano molto più in carne.

Valentine Colasante e Hugo Marchand.Foto: Opéra de Paris
Valentine Colasante e Hugo Marchand.

Foto: Opéra de Paris 

È stato difficile, quando hanno cominciato a parlare di fisico atipico, perché emergevo come ‘fuori dalla norma’, mentre io ero un adolescente ed avevo solo voglia di essere come tutti, di confondermi nella massa, che è più rassicurante. È stato un passaggio obbligato ma delicato nell’accettazione del mio corpo e della mia immagine, temevo soprattutto di non rientrare nei canoni stabiliti per far parte del balletto dell’Opera. Ma credo che la specificità di un’étoile risieda proprio in questo: saper uscire da uno stampo predefinito".

 

La tua famiglia ti ha aiutato in quei momenti difficili? È riuscita a sostenerti?

"I miei genitori ci sono sempre stati, dal primo momento. Si sono sentiti coinvolti non appena ho espresso il desiderio di danzare. Mi hanno accompagnato senza mai forzarmi, mi hanno seguito senza frenare la mia passione né spingerla. Mi hanno sostenuto economicamente, negli spostamenti a Parigi, nei corsi individuali. Mio padre mi ha aiutato a gestire lo stress perché, in famiglia, era il migliore nel tenere a bada le emozioni. Mia madre, invece, è emotiva come me e la sua vicinanza nei momenti di tensione avrebbe aggiunto ansia alla mia.
Quando ero lontano abbiamo mantenuto un contatto quotidiano, al telefono o tramite le lettere che mi mandavano in accademia. Ho sempre parlato tantissimo con i miei genitori, di tutto: non ci sono mai stati tabù. Se non con loro, con chi? Mi hanno sempre dato buoni consigli, non credo mi abbiano mai deluso. Sono davvero fortunato, so che oggi sono qui grazie a loro, le mie fondamenta.
Anche mio fratello maggiore, che ha due anni più di me, mi è d’esempio da quando siamo piccoli. Sono sempre stato spinto a fare meglio di lui. Ancora oggi, pur essendo diversi, andiamo molto d’accordo".

 

Per me è bello chi ama il suo corpo, chi mette in luce la sua unicità

 

Da cosa passa l’accettazione dei difetti in un ambiente così competitivo e rigoroso?

"Abbiamo tutti dei difetti. La complicazione, per i ballerini, è trovarsi di fronte allo specchio, alla propria immagine riflessa tutti i giorni, più ore al giorno, in abiti seconda pelle, che lasciano intravedere i muscoli, la morfologia, il lavoro del corpo. È difficile convivere con questo processo prolungato di osservazione di se stessi. Ma c’è un momento in cui occorre accettare il proprio corpo per farlo progredire, altrimenti si rimane bloccati. Bisogna accettare che non siamo perfetti: è da qui che comincia il cambiamento e la crescita.

Foto: Opéra de Paris
Foto: Opéra de Paris 

La danza spinge, dalla più tenera età, a mettersi in discussione, ricevendo critiche che mirano, sì, ad un’evoluzione ma che purtroppo sono spesso sul corpo, sulla propria pelle: per migliorare la tecnica o la coordinazione si lavora su un braccio, su una gamba. Tutto questo porta ad un percorso di riflessione, introspezione, che obbliga ad uno sviluppo personale costante. Fortunatamente, ho una visione della vita che mi spinge ogni giorno, in tutti gli ambiti, ad essere la versione migliore di me. Il fatto che un identico cammino di progressione faccia parte della danza crea un’alleanza tra le due sfere. La mia vita e la danza si nutrono a vicenda.

 

Cosa significa dare forma alla fiducia in sé quando si punta all’eccellenza e qual è il rapporto con l’imperfezione e la paura dell’infortunio?

"Per me dare forma all’accettazione di sé fa parte del cammino verso l’eccellenza. La ricerca dell’accettazione e dell’amore per me stesso fa parte della riuscita. Non sono aspetti dissociati, sono due ricerche che vanno insieme. Per puntare all’eccellenza dobbiamo inoltre avere una forma di clemenza verso noi stessi: se passiamo il tempo a cercare la perfezione, sul lungo termine finiamo per distruggerci. E nella danza bisogna tenere sul lungo termine, anche se la nostra carriera finisce a 42 anni. Non è facile perché sono un perfezionista e non amo le imperfezioni, mi ritengo raramente soddisfatto del mio lavoro. Ma questo non mi rende infelice: credo faccia parte del mio mestiere non sentirmi mai arrivato. È una ricerca ostinata e continua del buon movimento, quello più giusto a livello artistico. Al contrario, questa ricerca perpetua mi rende felice.

 

 

Gli infortuni sono effettivamente difficili da gestire, pur essendo parte integrante del percorso di un ballerino. Bisogna allenarsi sul filo, cercare l’equilibrio e se lo si perde, ci si fa male. Bisogna calcolare il rischio, pensare a come gestire in maniera intelligente l’allenamento e le prove. Ci si riesce con l’esperienza e dopo le prime ferite. Quando succede, ci si interroga a lungo sul perché e questo aiuta a capire come comportarsi in futuro. Sono cose negative che accadono per insegnarci qualcosa e farci crescere. Nella vita di un ballerino non esistono grandi drammi ma l’infortunio, sul momento, è orribile. Mi è successo due volte, mi sono rotto il piede a sei mesi di distanza e la seconda volta è stata molto dolorosa, la frattura ha coinvolto caviglia e legamenti. Per ritrovare la forza, l’elasticità e la sicurezza è dovuto trascorrere un anno e mezzo. Hai paura di non recuperare il livello di prima, passi attraverso una palette di emozioni, come quando affronti un lutto: il dubbio, la collera, la tristezza. Da quando capisci che bisogna accettare, però, cominci a guarire. Ora penso che quelle cadute mi abbiano migliorato.

 

Nella nostra società si parla molto di disturbi alimentari anche per i ragazzi. Com’è l’alimentazione di un’étoile che deve allenarsi ma anche mantenere il peso giusto per ballare?

"Noi ballerini dell’Opera non vogliamo essere magri, non è lo standard di bellezza della danza. Non siamo costantemente a dieta, l’importante è essere in buona salute. Ci interessa apportare al nostro corpo le vitamine necessarie per garantire la miglior performance, come qualsiasi sportivo ad alto livello. Ci sono dei momenti in cui stiamo più attenti: se ci concediamo degli strappi, ad esempio a Natale in famiglia, e prendiamo un po’ di peso, cerchiamo poi di recuperare e rimetterci in forma. È tutta una questione di equilibrio, siamo persone normali. Mangio esattamente come tutti, ho anche molto appetito, vista la mia corporatura e la tanta energia che dispendo durante il giorno. Dipende anche dalla difficoltà degli spettacoli, che a volte possono prevedere settimane di rigoroso allenamento. E poi, ogni tanto, bisogna saper allentare la tensione, perché si diventa pazzi a sorvegliare di continuo l’alimentazione. Ora è tutto chiuso, ma la sera sarei ben contento di andare a prendere un aperitivo con gli amici, i ritmi di questa fase lo permetterebbero. Quando tutto riaprirà, invece, si prospetta una fase intensa.

 

Il corpo dei ballerini è uno strumento di lavoro ma anche un ‘oggetto’ estetico. Qual è il tuo ideale di bellezza nella danza e nella vita lontana dal palco?

"Per me è bello chi ama il suo corpo, chi si riconosce al suo interno, chi è autentico e non nasconde chi è veramente, chi mette in luce la sua unicità. E poi trovo bellezza nell’arte, amo andare al museo, al cinema, a teatro, a un concerto. Adoro viaggiare. Per me il bello della vita è fare degli incontri, anche con ciò che non conosciamo; essere curiosi, interessarsi ad altre culture. La bellezza per me è la differenza e la ricerca dell’altro, uscire dalla sfera del ballerino concentrato su se stesso e lasciare spazio al diverso da noi, per saper comunicare in quanto artisti.

 

 

Le étoile maschili, come in Italia Roberto Bolle, sono sempre più dei personaggi ambiti anche dalla moda e dallo spettacolo. Che rapporto hai tu con questi mondi? È stata una sfida passare dal palco al set per shooting di moda? Raccontaci le tue esperienze da mannequin e i progetti in questo campo.

"Mi piacerebbe partecipare al Roberto Bolle and Friends, non è ancora capitato. Non ho mai sfilato, non mi considero un modello. Sono un ballerino étoile all’Opera di Parigi, cui la moda può interessarsi. Lo trovo un mondo pieno di bellezza, di ricerca estetica, creativo, ricco di artigianato ed eccellenza. In questo lo sento molto vicino alla danza. Abbiamo avuto l’incredibile opportunità di indossare i costumi Chanel per il gala di apertura dell’Opera ed avere tra le mani il lavoro di eccellenza realizzato su quegli abiti. La moda è attratta da come i ballerini si sentano a proprio agio con il corpo, a che punto sappiano farlo risplendere e con esso le creazioni che indossano. Un modello, probabilmente, sa posare ma non sa muoversi. Amo la moda ma non ne sono attratto per lavorarci, non adesso. Sono felice di partecipare ad alcune campagne, come per Louis Vuitton, o a degli shooting, come quello Instagram per Dolce e Gabbana. Non mi imbarazza".

 

Conosci la moda italiana? Se si quali stilisti ami?

"La conosco e la amo. In particolare, Giorgio Armani, Moncler, Ermenegildo Zegna. Per me costituiscono dei modelli di eleganza".

 

Quali sono i 3 capi irrinunciabili del tuo guardaroba? E i tuoi brand di riferimento?

"I cappotti oversize, in lana o cachemire, che si impongono come pezzi forti e dimostrano personalità. La t-shirt bianca, semplice, ben tagliata, écru o crema in alternativa al bianco. Infine un paio di anfibi, di stivaletti, con lo spirito rock. Quanto ai brand, mi piacciono alcune grandi firme internazionali ma amo anche marchi francesi meno conosciuti".

 

Hai già ballato in Italia?

"Sì e adoro il pubblico, lo sento più caloroso. Ogni città ha le sue particolarità ma sento forte il carattere mediterraneo. Dell’Italia adoro la cucina, la cultura, la tradizione, la storia della danza e le sue compagnie che hanno brillato per anni. È gratificante ballare in un Paese che abbia una tale passione per la danza. L’estate scorsa ero a Roma per ballare con Eleonora Abbagnato. Ho ballato a Genova, nel quartiere Nervi, e a Ravenna, più volte. Devo dire che adoro venire in vacanza in Italia!

 

Perché hai deciso di scrivere questo libro, cosa vuoi trasmettere a chi ti segue?

"Danser è stato una sorpresa anche per me, quando ho ricevuto la proposta delle edizioni Arthaud ero molto dubbioso e non avevo un ottimo feeling con la giornalista che mi era stata assegnata dalla casa editrice. Avevo incontrato sei mesi prima, per un progetto con Libération, Caroline De Bodinat e l’ho convinta a seguirmi, proprio perché avrebbe spiegato meglio a chi, come lei, è esterno al mondo della danza, cosa volessi condividere. Danser parla di vita, non sono confessioni ma racconti autentici, senza tabù. È stato accolto favorevolmente dal pubblico, siamo già alla seconda o terza ristampa (il libro è uscito a febbraio, ndr). Sogno che un giorno possa interessare pubblicarlo in Italia! O che sia tradotto in altre lingue, magari in inglese e giapponese".

 

Qual è il tratto principale del tuo carattere? E invece quale è l’aspetto di cui vai meno fiero?

"Sono un appassionato, un perseverante. Ma sono anche suscettibile e testardo".

 

Quali consigli daresti a un giovane che vuole intraprendere il tuo percorso professionale?

"Lavoro, lavoro, lavoro e continuare a sognare in grande. Le persone non sognano più, non ne hanno più voglia perché hanno paura. Abbiamo una sola vita, passa veloce ed io ho deciso di viverla con intensità, nel positivo e nel negativo. È una scelta, ci saranno grandi momenti di felicità e altri di sconforto ma almeno succedono tante cose e mi sento in movimento, vivo".

 

Qual è stato l’incontro che ha segnato la tua vita, che ti ha colpito di più?

"L’incontro con Benjamin Millepied ha sconvolto la mia vita, era lui il direttore della danza all’Opera nei miei anni cruciali; è stato lui, in qualche modo, ad estrarmi dal corpo di ballo. Poi, il suo successore, la direttrice che mi ha nominato étoile, Aurélie Dupont".

 

Cosa ti manca di più della vita pre-Covid?

"Il palco, prima di tutto. Danzare davanti ad un pubblico, condividere con le persone in sala, percepire la felicità della platea dopo lo spettacolo, e anche la mia. Andare a bere qualcosa con gli amici per festeggiare! E poi ancora viaggiare, anche per un weekend deciso all’ultimo momento. Mi manca la vita culturale, che dà a tutto un senso. Poi, una buona dose di futilità".

 

Chi vorresti vedere seduto intorno alla tua tavola per una cena ideale?

"Mi vedrei bene con Rudolf Nureyev, Fanny Ardant e Martha Argerich.