
Ma cosa succede quando un nuovo spot che cavalca l'inclusività viene lanciato? L'iter è oramai consolidato. Da un lato c'è chi reputa l'utilizzo di tematiche sociali per scopi di marketing una pratica offensiva per chi fa parte delle minoranze che si vogliono includere; dall'altro chi fa parte di quelle minoranze si sente orgoglioso di avere finalmente una voce. Poi ci sono chiaramente gli hater, i complottisti e gli ammiratori. E c'è addirittura chi, con un po' di ironia, accusa la campagna di essere discriminatoria nei confronti dei calvi.
Tutto il dibattito, ovviamente, avviene sui social. Qualche esempio? Franco in da Hood scrive su Twitter: "Scusatemi ma saranno 20 anni che si sono normalizzati gli uomini coi capelli lunghi e le donne coi capelli corti. Stanco di questi marchi che usano la comunità lgbt solo per marketing"; Angela Galloro commenta "Comunque se io fossi parte attiva della comunità LGBTQ non mi piacerebbe così tanto che i brand strumentalizzassero la tutela della mia categoria per pubblicizzare banalmente i loro prodotti". Poco più in là c'è chi ribatte che la campagna è "un esempio virtuoso di inclusività". Mentre c'è anche chi ricorda che l'assunzione di ormoni per la transizione, soprattutto per quella da femmina a maschio, porta alla perdita o alla trasformazione dei capelli. Così, su uno scenario ben noto che varia a seconda delle tematiche affrontate, si gioca la riuscita delle strategie dell'inclusive advertising. Ne abbiamo parlato con Giuseppe Mazza, pubblicitario e docente di comunicazione.
Cosa pensa delle polemiche sulla nuova campagna Pantene?
La sensibilità è acuita dall'epoca Covid, leggere "Pantene ti supporta" può irritare. In questo periodo al marchio non si chiede di vendere qualcosa ma di essere utili. Non vedo molto bene le polemiche contro i marchi che fanno washing, ovvero quello che si chiamava green washing, lavarsi la coscienza con dei comportamenti e degli statement di tipo ecologico. Oggi esistono il pink washing e il rainbow washing che bollano o vorrebbero bollare come ipocriti i comportamenti civili da parte dei marchi. Oltre ad essere stanco delle polemiche social posso dire che per me questa è una critica che sfugge l'obiettivo.
In che senso?
Il percorso dei diritti civili, soprattutto nel mondo statunitense ed anglosassone, si è sempre incrociato con l'economia. Forse la case più importante è quella che negli anni Settanta vide protagonista anche Harvey Milk, uno dei primissimi politici dichiaratamente omosessuali. Aveva contro Anita Bryant, una cantante tradizionale nominata per anni migliore casalinga d'America. Lei faceva una fiera opposizione contro i diritti degli omosessuali, capeggiando un movimento, ed era anche testimonial del succo d'arancia della Florida. Harvey Milk e tutto il mondo dei bar gay boicottarono il succo d'arancia chiedendo di bere succo d'ananas. Nel giro di un anno lei perse la sponsorizzazione. Immagino se Harvey Milk tornasse a rivivere oggi e chiedesse come stanno andando le cose, noi dovremmo rispondere che abbiamo un problema con i marchi commerciali che sbandierano l'arcobaleno. Lui ci guarderebbe e direbbe 'dov'è il problema, questa è una bellissima cosa'. Perché è lì che si avanza, nell'economia reale, non solo sull'opinione.
Ci sono esempi virtuosi di inclusive advertising?
Dove Evolution è una campagna del 2006, quella che parlava di Real beauty, nella quale il marchio si prendeva la responsabilità di andare contro l'estetica corrente attaccando Photoshop. Da allora ce ne sono state tantissime, basti pensare agli assorbenti e a come è cambiata l'estetica del ciclo. Mi sembrano dei fatti positivi.
Questo genere di pubblicità sta cambiando gli stereotipi o aiutando a farlo?
Il senso di colpa del marchio occidentale è un grande indotto e sta producendo tutte queste campagne inclusive. Pantene si occupa di capelli e si domanda "come posso essere utile?", e ne fa un discorso di inclusività. Poi bisogna capire se ne fa un discorso credibile o meno. In una campagna ci possono essere incongruità ma non possiamo chiedere alle aziende di tornare ai tempi di Carosello.
A questo punto più che il marchio il problema sembra essere il pubblico che continua ad accogliere queste campagne con le famose "polemiche social".
Il problema di una campagna è quando viene ignorata, una reazione negativa vale come una positiva, ed è comunque una reazione. Per il marchio non credo che queste polemiche siano un problema. Procter&Gamble è un marchio che ha fatto una scelta ormai radicata di presenza sui temi civili. Lo scorso maggio, dopo l'uccisione di George Floyd, ha realizzato una campagna che diceva "Non basta non essere razzisti, bisogna essere antirazzisti". Dovremmo forse dire alla Procter&Gamble di stare al suo posto? Il vero problema del pubblico in questo momento è che c'è una sensibilità più acuita da quello che stiamo vivendo. Il Covid è stata la Caporetto dei marchi con tutte quelle "campagne dell'andrà tutto bene" fatte in modo ingenuo.
Insomma ben venga l'inclusive advertising o non c'è più bisogno di questo tipo di pubblicità?
Era forse meglio quando vedevamo donne photoshoppate e modelli di bellezza irreali ai quali rimproveravamo di creare sensi di inferiorità? A me sembra positivo che i marchi entrino nell'arena e se la gente reagisce talvolta in modo negativo magari è perché le campagne sono didattiche, noiose, retoriche. Ricordiamoci che la campagna non si esaurisce nel cosa ma si realizza nel come. Prima decido cosa devo dire, poi c'è il come dirlo che fa la differenza. Queste campagne possono dare un grosso contributo in termini di autorappresentazione. È la società che cerca di esprimere nuove rappresentazioni e lo fa anche attraverso i marchi. È un terreno di conquista perché sono rappresentazioni sociali, in Italia vediamo ancora le mamme che cucinano e portano in tavola. A me è capitato di fare campagne nelle quali mi proponevano di far uscire i neri dall'inquadratura. Non ho mai accettato. E' grave perché quello che fai entrare nell'inquadratura diventa determinante per la società mediatica.