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Antonia Klugmann: "Chi non rispetta la terra è un ladro"

Antonia Klugmann
Antonia Klugmann 
La chef triestina: “Il lusso non ha a che fare con ciò che puoi comprare, sia pure a carissimo prezzo, ma con ciò che non puoi comprare perché è unico, super locale, e altrove non si trova. È scardinare le aspettative della gente”
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Parlare di sostenibilità non è mai banale. Anche se alcuni potrebbero pensare che sia un argomento più o meno abusato, per me è un tema centrale, e lo è come guida di vita prima ancora che argomento di comunicazione”. La chef dell’Argine di Vencò (Gorizia) Antonia Klugmann, triestina di nascita e friulana di adozione - che anni fa ha chiuso nel cassetto gli esami dati a Giurisprudenza quando l’interesse per la cucina è diventato molto più di un hobby, e che nella vita nell’orto ha trovato stimoli e conforto dopo un incidente che l’ha costretta alla quasi immobilità per un anno - crede che la sostenibilità riguardi “tutti noi in modo imprescindibile, perché non è possibile pensare al cibo senza pensare alla salute delle persone e del pianeta”.  Per chi cucina per professione, poi, l’impegno è ancora più cogente: “La gastronomia – spiega – ha racchiuso in sé il discorso. Infatti, ogni singolo ingrediente è di per sé vivo perché racconta la storia del ‘prima’. Noi cuochi possiamo avere un impatto importante sulla società, se sappiamo ragionare su questa esigenza e comunicarla”.
Si può interpretare la sostenibilità da diversi punti di vista. Quali sono le priorità e che cosa comporta ignorare il problema?
“Per me è un impegno a tutto tondo, dal benessere animale all’impatto sul territorio, dalla tutela del suolo a quella delle risorse idriche, dalla salvaguardia del paesaggio alla responsabilità verso le persone che lavorano nella filiera. Se non lo facciano siamo dei ladri, perché togliamo qualcosa a chi viene dopo. La sostenibilità riguarda la misura, la ricerca scientifica, l’approfondimento personale, il sentirsi bene quando si pensa al proprio operato. L’obiettivo è non sentirsi predatori”.
Ma non si rischia il controsenso nel mondo dell’alta ristorazione, che fa parte della sfera del lusso? 
“Dobbiamo ragionarne in termini di contemporaneità. Ogni ristorante deve avere l’attenzione e l’interesse a spingersi nei territori dell’etica. Io lavoro nel settore del lusso in termini diversi da quello che ci si aspetta nell’alta cucina. Faccio un esempio. Sono anni che non uso carni da allevamenti intensivi o il foie gras perché non è in linea col benessere animale. Ho da tempo eliminato dal menu scampi e gamberi rossi. Non ne rimangono molti e mi interessa di più tutelare il mare e infatti ho escluso tutti i prodotti della pesca da strascico che impoverisce i fondali. Non uso da molti anni il caviale. In quest’ultimo caso, so che esistono allevamenti virtuosi, ma non ho interesse a portarlo nei miei piatti, perché ho un ristorante nella campagna friulana, sarebbe comunque fuori contesto. Lo stesso vale per il tonno, a meno che non mi capitino piccoli tonnetti dell’Adriatico pescati ad amo”.


Ne ricaviamo, insomma, una nuova  definizione di lusso e un invito a intrecciare etica e territorio, con la consapevolezza delle risorse naturali.
“Proprio così. Il fatto che quando si entra in pescheria si vedano pesci in abbondanza sul banco, non vuol dire che siano abbondanti nel mare. Dobbiamo pensare alla natura da cui attingiamo. Dobbiamo proteggere il selvatico, preservare la biodiversità. E sottolineo che questa parola non riguarda solo le coltivazioni agricole. Avere consapevolezza del selvatico ci rende cuochi più consapevoli, anche quando poi lavoriamo il coltivato. La mia idea di lusso riguarda, per dire, la conoscenza delle erbe, come l’uso particolare del papavero nel piatto, mio biglietto da visita del rapporto con la natura. Il lusso non ha a che fare con ciò che puoi comprare, sia pure a carissimo prezzo, ma con ciò che non puoi comprare perché è unico, super locale, e altrove non si trova. Non è prezioso quello che puoi comprare un tanto al chilo. Il lusso ha a che fare con la vera soddisfazione del gusto attraverso la scoperta. Il lusso per me è scardinare le aspettative codificate delle persone che si siedono al ristorante, non è la rincorsa della moda, ma trovare e proporre la propria identità. La mia sta nella salvaguardia del selvatico”.
Proprio l’attenzione al selvatico l’ha portata ad essere nominata, unica in Italia, cuoca ambasciatrice del WWF. In che cosa consiste l’incarico?
“A novembre dell’anno scorso ho partecipato al Summit a Roma in cui si è discusso, tra l’altro, lo studio biennale che il WWF commissiona a scienziati indipendenti. Ero presente e ho seguito con grande apprensione i dati sul rapporto tra coltivazione, allevamento e sopravvivenza delle aree selvatiche. Come ambasciatrice, la mia attività di volontariato riguarda seminari sugli alberi da frutto, gli insetti impollinatori, l’uso delle risorse idriche, il mantenimento delle acque pulite e anche l’elaborazione di ricette studiate ad hoc. Quest’anno stiamo organizzando appuntamenti che hanno a che fare con le Oasi Wwf e entriamo anche nella pratica. Per far capire che parte del lavoro del cuoco sta nel lavorare con meno risorse e col minor spreco possibile. Approfondire gli usi della tecnica per valorizzare il prodotto, le sue connessioni di gusto e sfumature. Perché è l’esigenza di costruite un grande piatto che spinge a approfondire l’ingrediente e porta a sviluppare la tecnica. Una tecnica al servizio del gusto e non viceversa”.


Lei è fautrice anche del concetto di giardino selvaggio. Di che cosa si tratta? 
“Si tratta di far entrare nell’orto agenti non necessariamente coltivabili, spontanei e farli convivere con quelli piantati e gestirne la crescita in armonia. Questo necessita di studio e conoscenza perché ogni vegetale è un dono e può riservare sorprese. Come per esempio l’erba sale, un’erba aromatica che dona sapidità ai cibi e consente dunque si usare molto meno sale nella ricetta, a vantaggio anche della salute. Ci sono piante annuali e perenni adatte al terreno, che facilmente si riproducono, facendo cadere i semi, e si espandono. Le piante si adattano alle condizioni del terreno e quindi cresceranno le migliori e le più forti, come da selezione naturale. Il giardino o l’orto selvaggio sarà sempre disordinato, ma di certo sempre sostenibile”. 
Selvatico, ma in armonia con la presenza antropica. Per questo lei parla anche di tutela del paesaggio?
“Si. È importante anche prendersi cura dell’ambiente circostante, anche in termini di conservazione di quello che ci hanno lasciato i nostri predecessori, è la nostra storia. Non a caso mi sto dedicando ai lavori di ristrutturazione del vecchio mulino che fa parte della proprietà dell’Argine di Vencò.  È un edificio che risale al 1650, una costruzione povera, di campagna, in pietra, che sarà un monumento al passato, ma che resta vivo per il futuro”.